La Libia una settimana fa si è trovata sull’orlo della tragedia di vedere repressa nel sangue una ribellione di massa pacifica all’inizio, di una vendetta militare contro gli insorti nelle città, del bombardamento delle folle in protesta, trasformando il paese in un campo di sterminio, ad opera di un tiranno da molte parti definito neuropatico.
Consentire di impedire altri attacchi aerei sui civili istituendo la no-fly-zone e disarmare il regime di Gheddafi era un atto dovuto da parte dell’ONU, anche in virtú della convenzione sulla prevenzione del genocidio del 1948. Alcuni stati fortunatamente si sono liberati dalla complicità con Gheddafi, tra cui tutta la Lega Araba, riconoscendo per tempo dei limiti invalicabili da parte dei regimi nella repressione di rivolte popolari. In questo senso la Libia dovrà fare scuola ed esigerà coerenza. Inoltre, una futura Libia democratica non solo sarà la miglior garanzia per il rispetto dei diritti dei suoi abitanti, ma anche per rapporti stabili e amichevoli con i paesi vicini e per il coordinamento dei flussi migratori.
Meno male che l’Italia, dopo tentennamenti iniziali e un primo ministro non intenzionato a “disturbare” Gheddafi, si sia convinta di intervenire. Giustamente nel centenario dell’inizio delle sue campagne libiche nel 1911 e la successiva colonizzazione l’Italia si presta a proteggere e liberare la popolazione libica invece di aggredirla e soggiogarla, aiuta a disarmare il suo dittatore invece di riempirlo di armi per gli affari suoi. Si è, per contro, tirata indietro la Germania, atto di incoerenza giacché la situazione libica non è fondamentalmente dissimile all’intervento nel Kosovo del 1999.
L’intervento umanitario, stando alla risoluzione 1973 dell’ONU, non è però volta ad eliminare Gheddafi né a creare uno stato democratico e a mantenere una Libia unita. A questo dovranno pensare i libici stessi, ma disarmando il regime si creerà lo spazio per avviare una trattativa fra il nuovo Consiglio nazionale nell’est del paese e forze del regime tese a cedere il passo ad una nuova Libia democratica, forse con la mediazione dall’esterno della Lega Araba o dell’ONU. Se non ci fosse stato l’intervento, certo, che ci sarebbe presto stata la pace, ma quella del cimitero.
L’interferenza estera nel conflitto in Libia non era conflitto internazionale, ma pure è legittimo perché il governo non ha rispettato il diritto internazionale umanitario nella repressione dell’insurrezione; legittimo anche in virtú del principio che lentamente va affermandosi dai tempi delle guerre in Bosnia, Kosovo e Somalia: la responsabilità degli stati di proteggere la popolazione civile, un principio che va a sostituire la vecchia regola della non-ingerenza negli stati sovrani, una regola che ha dato luogo a tanti eccidi e crimini nei confronti della popolazione civile a mercé dei loro tiranni. La Birmania insegna.
Nell’applicazione di questo principio, però, la comunità internazionale è divisa e del tutto incoerente. Benché con ritardi il dovere di proteggere e di ristabilire la pace fu rispettato nel Kosovo, in Bosnia e in Somalia, ma disatteso in tanti altri conflitti, i più clamorosi quello del Ruanda, della regione Kivu del Congo orientale e del Darfur nel Sudan, meno noti i casi dei tamili dello Sri Lanka, del Kashmir indiano, dei curdi della Turchia. Una futura convenzione internazionale dovrà definire meglio quando una repressione politica si trasforma in massacro e genocidio di civili. Inoltre, la comunità internazionale non potrà lasciare il diritto di veto a quegli stati, membri del Consiglio di sicurezza, da sempre ostili a tali interventi di polizia internazionale umanitari, di solito quegli stati colpevoli di simili stragi al loro interno, come la Russia e la Cina. Non solo la procedura di avviamento di tali interventi dovrà essere più democratica, ma lo stesso ruolo di guidare un tale intervento spetta alla Comunità Internazionale stessa, cioè all’ONU, non solo ad un paio di stati volenterosi, al “Sarkozy di turno”, oppure ad un’alleanza militare come la NATO col rischio di mescolare interessi strategici e nazionali con presunzioni umanitari.
Gheddafi è stato incriminato dalla Corte Internazionale di Giustizia per crimini contro l’umanità. Il magistrato, però, è piuttosto inutile se deve assistere inerme ai crimini che si consumano. Per uno stato di diritto è ovvio che la polizia non può intervenire solo quando le conviene o quando i rischi sono minimi. A medio termine, dopo il caso Libia, sarà più che necessario fissare delle regole condivise da tutti per tali interventi, stabilire criteri chiari per far scattare il diritto all’ingerenza umanitaria. L’intervento prefigura una sorta di “politica interna globale”, in cui i dittatori non saranno più liberi a massacrare la propria popolazione. Questo, a sua volta, avrà un effetto deterrente per i regimi disposti a tutto pur di mantenere il potere.
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