Da Loiny riceveviamo e volentieri pubblichiamo
“Se non fossi la cenciosa canaglia che sono”, pensava sor Cagnazzo nell’atto di indossare un paio di calze elastiche blu notte di gran lunga meno belle dell’antiestetico garbuglio di vene varicose che avrebbero dovuto contenere, “glielo direi in faccia che cosa penso del Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo“. Poi s’acquietò, e dopo aver ripetuto la parola “claritate”, mi riferì di strani incontri e di malversazioni. Trascrivo il suo racconto con studiata malagrazia, in attesa che disnebbi:
“Devo sostenere l’esame orale di maturità . Mi trovo nell’aula magna di un edificio sventrato e intuisco decine di volti ostili. I membri della commissione, appollaiati su giganteschi trespoli in similoro, sembrano non accorgersi che sotto di me scorre un fiume. Molti di loro sono distratti, alcuni sordomuti, altri ancora fingono di non vedermi. In ogni caso, si comportano tutti come se io non ci fossi. Nonostante li veda di sotto in su, in una prospettiva che potrebbe ingannare, ne ricavo un’immagine netta: sono perlopiù pulci del cane in età adulta, ossia volgarissimi insetti ematofagi appartenenti alla famiglia degli afanitteri, le cui abitudini alimentari, spiccatamente parassitarie, dispiacciono ad una parte cospicua di vertebrati, uomo compreso. Giustamente appiattiti, atteri, dotati di zampe posteriori saltatorie e bocca pungente-succhiante, sono talmente levigati ed in ogni senso perfetti, da sembrare fittizi. Ad un primo sguardo, forse tratto in errore dall’impressione che siano stati ritagliati da un onesto quanto innocuo manuale di entomologia, sono portato a rubricare la loro assenza di spessore come probabile indizio di garbata mansuetudine. Fatto sta che questi insettacci, mancando completamente di profondità , non recano alcun turbamento. Per di più, ho la fortuna di conoscerli tutti.
In prima fila, accovacciato tra mio padre e il segretario comunale, c’è il mio datore di lavoro, una larva sui sessant’anni cui una fastidiosa malattia dello sviluppo ha impedito di accedere all’età adulta. Oggi sembra molto eccitato. Indossa un doppiopetto blu e non fa che guardarmi con aria di biasimo. Poco prima che l’esame abbia inizio, questa creatura vermiforme, in nessun modo affabile ed invero tremenda, prende la parola e comincia a insultarmi. Poi rende note alla commissione d’esame le ragioni della sua riprovazione: sarei responsabile di alcuni ammanchi di cassa e della morte improvvisa della sua figlioletta.
Mi sento confuso. Sono certo della mia innocenza, ma non sono in grado di organizzare uno straccio di difesa. Il mio silenzio, inteso da taluni a modo di chiara ammissione di colpa, assurto da altri ad emblema di irredimibile vigliaccheria, diviene argomento di discussione e in pochi minuti cagiona negli astanti una reazione scomposta.
L’intera commissione esaminatrice, capitanata dal sindaco della mia città , si avvia verso di me con fare guerresco. I membri più anziani, armati fino ai denti, si lasciano scivolare dai loro trespoli, guadagnando con calma il centro dell’arena, mentre i più giovani, o i più scaltriti nella pratica del balzo, non fanno in tempo a calcolare la possibile parabola del salto, che già s’affacciano furiosi sull’orlo della fossa. Sono proprio sopra di me, li vedo ad uno ad uno. Zampettano sicuri a randa a randa, a muta a muta mi coprono di odiose contumelie. Ci separa ormai la sola altezza del burrato: venticinque, forse trenta metri di parete verticale attraversata da una cengia sdrucciolevole, una spirale larga un dito, che a metà della parete incrocicchia scale a ganci e biscagline.
Prima del loro arrivo, ho giusto il tempo di formulare un benvenuto all’altezza. Penso a un discorso stringato ed efficace, possibilmente improntato a dignitosa sicumera, del tutto scevro di intenti adulatori, eppure capace di placare anche gli animi più turpi. Ho in mente un breve giro di parole sobrie e definitive, tenute assieme da un’elocuzione ineccepibile. “L’importante è mostrarsi deferenti, ma senza esagerare. Bisogna evitare qualsiasi forma di piaggeria”, mi dico, e mentre me lo dico, in ossequio ai nuovi venuti, mi esibisco in una profonda riverenza, conformemente alla più rigida etichetta, piegando il capo in avanti, cioè, e spostando all’indietro la gamba sinistra con la grazia leggiadra di una dama. Quindi mi faccio forza, gonfio il petto e dico:
“Colendissimi compari, amati parenti, concittadini tutti e cari amici, benvenuti nella mia fossa. Vi stavo aspettando con una certa apprensione. Io, come potete constatare, mi conduco in maniera assai modesta: la mia aula è un orrido strettissimo a sezione circolare, il mio banco, uno sconcio tavolaccio incassato sul fondo limaccioso del dirupo. Per di più, sono immerso nella mota fino agli occhi e la mia mano destra, avvinta dietro la schiena, sanguina copiosamente. Cosa potrei desiderare di più? Di tanto in tanto, con grandi sforzi dei muscoli del collo e di tutta la cervice, riesco a tirar fuori la testa dal limaccio. Ma non crediate che quaggiù sian tutte rose e fiori; anch’io ho le mie brutte gatte da pelare: l’umidità , la muffa alle pareti, quest’aria irrespirabile, e poi le blatte, e la loro pessima abitudine di balzarmi addosso ogniqualvolta decida di affacciarmi in superficie. Inoltre non ho libri e il programma d’esame non mi è stato ancora consegnato. Studio in questa buca ormai da molti anni e se non fosse per tutto questo fango e per il fiume che mi scorre sotto, costringendo le mie gambe ad un lentissimo processo di erosione, riuscirei probabilmente a concentrarmi. Ma ora basta parlare di me. Ditemi di voi, piuttosto. Ho notato che il ciglio del burrone, affatto impervio e in più punti strapiombante, vi ha creato dei problemi. Peccato, sareste potuti arrivare molto prima. L’importante, però, è che ora siate qui. A proposito: posso offrirvi qualcosa? Del caffè, una pizza al taglio… O magari preferite un frizzantino?”
Le mie parole, invero un po’ cerimoniose ma tutt’altro che fuori misura, contro ogni previsione non sortiscono gli effetti sperati. Subito, senza opporre resistenza, vengo sommerso di ingiurie e ceffoni. Con un morso, un collega di mia sorella mi stacca il mignolo della mano sinistra. La situazione volge rapidamente al peggio. Accanto alla porta d’ingresso, tra l’attaccapanni e la gigantografia dell’assessore alla cultura, una figura in ombra agita un capestro”.