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Intimidazione e gogna pubblica.
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Dire che la divisa fa paura è una libera opinione; condannare quell’opinione e con l’opinione la persona che l’ha espressa è un atto, invece, di intimidazione e di gogna pubblica, compiuta proprio da chi invece dovrebbe proteggerti e proteggere la tua libertà di espressione. Un atto politicamente connotato che incrina la bella superficie della democrazia facendola crepare pericolosamente verso una democratura.

Giorgio Ghiotti sul manifesto di ieri, in solidarietà con Michela Murgia

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Der kurze Weg von Red Land ins schwarze Bozen.

Eine kurze Recherche zu Red Land (2018), dem revisionistischen Film, den die Gemeinde Meran anlässlich des Tages der Erinnerung zur kostenlosen Ansicht anbietet, fördert wenig Erstaunliches und dennoch Interessantes zutage.

Darunter eine indirekte Verbindung zu Südtirol. Bindeglied ist Walter Pilo, der Neofaschist, den ich hier schon einmal in diesem Blog erwähnt hatte.

Für einen weiteren Film (Il segreto d’Italia) des Drehbuchautors von Red Land, Antonello Belluco, hatte er über seinen Verein L’Uomo Libero zur Beteiligung am Crowdfunding aufgerufen.

Pilo lebt heute zwischen Riva del Garda und Arco im benachbarten Trentino. Anfang der 1970er Jahre war der Sohn eines sardischen Soldaten und einer deutschsprachigen Südtirolerin noch Sekretär des Bozner Fronte della Gioventù, der Jugendorganisation der faschistischen MSI. Als im Juli 1971 am Penser Joch ein paramilitärisches Camp aufflog, war er als Teilnehmer dabei. Ausbildner war ein gewisser Giuseppe Sturaro, der Jahre später als Vizekommandant der in Südtirol stationierten Gladio-Einheit Primula entlarvt wurde.

Im Jahr 1972 verübte Pilo mit drei weiteren Neofaschisten einen aufsehenerregenden Angriff auf Sergio Camin, damals junger Südtirol-Korrespondent des Manifesto. In diesem Zusammenhang brachten ihn Zeitungsberichte mit weiteren politisch motivierten Gewalttaten in Verbindung:

Bericht in L’Unità vom 5. Juni 1972 – Hervorhebung von mir

Bericht in L’Unità vom 12. Juni 1972 – Hervorhebungen von mir

Dass sich an der Gesinnung von Pilo bis heute wesentlich etwas geändert haben könnte, legen weder die Tätigkeit seines Vereins — der auch mit CasaPound zusammenarbeitet — noch sein Einsatz für die Faschistinnen des dritten Jahrtausends nahe: als diese vor einigen Jahren vom Bozner Christkindlmarkt der Solidarität verbannt wurden, kritisierte Pilo dies scharf.

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Rest in power, Lidia!

Im Alter von 96 Jahren hat uns heute die Widerstandskämpferin Lidia Menapace verlassen. Sie war Zeit ihres Lebens eine unerschütterliche Antifaschistin und Vorkämpferin für die Rechte der Frauen.

Gemeinsam mit Waltraud Gebert-Deeg (SVP) war die Lehrerin und Publizistin 1964 für die DC als erste Frau in den Südtiroler Landtag gewählt worden. Von 1965 bis 1969 hatte sie als erste weibliche Landesrätin die Bereiche Gesundheit und Sozialfürsorge inne.

Im Umfeld der Studentenbewegung näherte sie sich nach ihrem Austritt aus der DC (1968) der KPI an. Außerdem arbeitete sie von Anfang an mit der damaligen Monatszeitung Manifesto zusammen.

Für Rifondazione Comunista, der sie seit der Gründung 1991 angehörte, zog sie noch 2006 im Alter von 82 Jahren in den italienischen Senat ein.

Die Südtiroler Gesellschaft für Politikwissenschaft ehrte sie als politische Persönlichkeit des Jahres 2018:

Lidia Menapace ist Symbol und Vorbild für ein lebenslanges politisches Engagement, für politische Partizipation, für politische Einmischung, für politische Bildung, letztlich für die Demokratie, die auf den Grundprinzipien der Gleichheit, Freiheit, Solidarität und Menschenwürde aufbaut.

— aus der Begründung für die Ehrung

Sie ist im Bozner Krankenhaus an den Folgen einer Infektion mit dem Coronavirus gestorben.

Siehe auch ‹1 ‹2

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Una repubblica di diritti sociali.
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[La nostra] è un’idea di nazione civica, un’identità di contenuti sociali e culturali, di integrazione. Nella società catalana, con gran parte della popolazione venuta da fuori, non esiste il catalano da un punto di vista etnico. L’indipendentismo è un movimento politico con radici civiche, è anacronistico definirlo come nazionalismo.

Una Catalogna indipendente è un progetto di giustizia sociale e di diritti umani, non di bandiere ma di radicalità democratica, impossibile da realizzare nello Stato spagnolo che non ha fatto pulizia del franchismo, in mano a oligarchie con a capo un sistema monarchico corrotto. Ci sono ragioni storiche e contemporanee che avallano una Catalogna indipendente in una visione progressista. A chi associ l’indipendentismo catalano all’estrema destra chiedo che capisca che quello catalano è un caso esemplare di costruzione di una repubblica di diritti sociali.

Carles Puigdemont, ex presidente della Catalogna, membro del Parlamento europeo, intervistato dal Manifesto (28.11.2020)

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Il virus sovrano.
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[L]e procedure democratiche vengono sospese da disposizioni prese nel segno dell’emergenza. Un decreto di qua e un decreto di là: così cittadine e cittadini finiscono per accettare «misure» che dovrebbero garantirne la sicurezza, ma che in effetti ne limitano fortemente la libertà. I provvedimenti presi negli ultimi giorni da governo e regioni – in ordine sparso – sono emblematici. Si giunge fino a chiudere i luoghi della cultura, a vietare manifestazioni e riunioni. Sono «misure» che hanno – inutile dirlo – un sapore autoritario e un carattere inquietante.

È indubbio che si usi biecamente la paura per governare. Proprio per questo il sovranismo, soprattutto quello anti-immigrati, non è una riedizione del vecchio nazionalismo. È un fenomeno nuovo: fa leva sul timore dell’altro, l’allarme per ciò che viene da fuori, l’ansia della precarietà, la voglia di esserne immuni.

La democrazia immunitaria è perciò un’inedita forma di governance dove la politica, ridotta ad amministrazione, per un verso si rimette al dettato dell’economia planetaria, per l’altro si autosospende abdicando alla scienza – «facciamo parlare gli esperti!» – che s’immagina oggettiva, vera, risolutiva. Come se la scienza fosse neutra e neutrale, come se non fosse già da tempo strettamente connessa con la tecnica, altamente tecnicizzata.

Il coronavirus, questo virus sovrano già nel nome, si fa beffe del sovranismo d’eccezione, che vorrebbe grottescamente profittarne. Sfugge, glissa, passa oltre, varca i confini. E diventa metafora di una crisi ingovernabile, di un crollo apocalittico. Ma il capitalismo, lo sappiamo, non è un disastro naturale.

da un commento della filosofa Donatella Di Cesare apparso sul Manifesto (1 marzo 2020)

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Autorinnen und Gastbeiträge

Una svolta inquietante nella Spagna postfranchista.

Per gentile concessione dell’autrice riproponiamo qui un articolo apparso sul Manifesto del 15 ottobre.

di Donatella Di Cesare*

La parola chiave della sentenza emessa dalla Corte Suprema spagnola è sedición, sedizione, cioè la rivolta pubblica contro l’autorità. Ma le pene sono talmente pesanti che, malgrado ogni smentita, dietro sembra risuonare il reato di ribellione, vale a dire uso della violenza anticostituzionale. Il che è in linea con tutto il processo contro gli esponenti dell’indipendentismo catalano, un processo durato due anni, durante i quali gli imputati, costretti al carcere preventivo, non hanno potuto far valere i loro diritti.

Particolarmente significative sono la condanna a 12 anni inflitta a Carme Forcadell, filologa e attivista politica, ex presidente del Parlament catalano e quella a 13 anni, la più alta di tutte, con cui è stato punito Oriol Junqueras, ex vicepresidente del governo catalano, leader del partito di Sinistra repubblicana (Esquerra Republicana). Alla sedizione si aggiunge il reato di malversazione, cioè l’utilizzo di fondi pubblici impiegati per il referendum del 2017. Occorre ricordare che ad essere colpiti sono anche i rappresentanti della società civile accusati di «disobbedienza». Il bersaglio è tutto l’indipendentismo catalano. Ada Colau, sindaca di Barcellona, ha parlato giustamente di «sentenza crudele». Le manifestazioni di protesta riempiono le strade della Catalogna, da Girona a Lleida, mentre sono previste anche azioni di sabotaggio.

Come il carcere preventivo non ha aiutato ad affrontare il problema, così questo giudizio finirà per aggravare ed esasperare il conflitto trasferendolo alla Corte europea e ai tribunali internazionali.
Il verdetto segna una svolta inquietante nella storia della Spagna postfranchista. Comunque si voglia valutare la complessa questione catalana, è indubbio infatti che si è trattato di un processo politico, dove sono state giudicate anzitutto le idee. E questo è inaccettabile in una democrazia.

Pesa in tutta la vicenda il ruolo ambivalente giocato dal Partito socialista di Pédro Sanchez che alla fin fine non si è impegnato a trovare una via d’uscita, come dimostrano le richieste di condanna presentate dalla Procura e dall’Avvocatura di Stato, cariche nominate dal governo. Tutto ciò avrà importanti conseguenze sulle prossime elezioni spagnole del 10 novembre. Non si può escludere che ne approfitti non tanto il Partito popolare, quanto l’ultradestra di Vox, il partito erede di Francisco Franco, guidato ora da Santiago Abascal, che al motto di «Prima gli spagnoli!», oltre ad abolire l’aborto e mettere fuori legge le organizzazioni femministe, vuole chiudere i porti ai «clandestini», autorizzare solo lo spostamento di popoli di lingua e cultura ispanica e soprattutto eliminare le autonomie. Il che deve far riflettere sulla collocazione politica dell’indipendentismo catalano attaccato da un inquietante fronte reazionario come non si era mai visto negli ultimi decenni.

Emerge oggi, attraverso questo verdetto, quanto gli Stati-nazione europei siano un ostacolo alla vita dei popoli, producendo conflitti interni, fomentando il sovranismo, richiedendo neppure troppo tacitamente la pulizia etnica alle frontiere.

Emblematico è proprio lo Stato-nazione spagnolo con le sue differenze linguistiche e culturali, che dovrebbero arricchirlo, e la sua aspirazione a una fantomatica identità. Proprio questo è il tema che la sinistra antisovranista dovrebbe ripensare.

L’Europa avrebbe dovuto diventare una nuova e flessibile forma politica sovranazionale, capace proprio per ciò di ospitare al suo interno le autonomie, garantendo i diritti attraverso una nuova cittadinanza, aperta anche ai migranti. È rimasta invece un coacervo di Stati-nazione in continua competizione, sempre più ripiegati su se stessi e gelosi della propria sovranità.
Nell’Europa attuale, che ha chiuso un occhio, anzi due, sull’annessione della Crimea, la questione catalana, pur non essendo l’unica, ha un valore simbolico. Anzitutto per quella grande tradizione democratica che la Catalogna rappresenta. Ma anche perché il conflitto non ha tanto connotati protonazionali (anche se non mancano frange identitarie), quanto postnazionali. Questo spiega perché mette in discussione il tema dello Stato, tocca l’Europa, investe la democrazia, richiede una risposta internazionalista.

Vedi anche ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 ‹5 ‹6 ‹7 ‹8 ‹9 | 1› 2›

*) Donatella Di Cesare, allieva di Hans-Georg Gadamer, è ordinaria di Filosofia alla Sapienza di Roma, saggista ed editorialista per il Manifesto e per l’Espresso.

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Bevilacqua e l’Italia pura.
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Eppure, mentre i secessionismi infuriano ovunque, costituiscono la dinamica che sta lacerando da tempo tante nazioni e territori in Europa e nel mondo, l’Italia – che ha conosciuto la subalternità allo straniero dovuta alla divisione interna e dovrebbe possedere buoni anticorpi – gode di condizioni storiche vantaggiose: non ha al suo interno enclaves religiose o etniche. Non a caso Bossi aveva cercato di inventarsene una «celtica». Dunque solo l’egoismo regionale, aizzato da un gruppo estremista e cinico che ha fatto le proprie fortune personali su rivendicazioni autonomistiche e campagne di odio, mette in pericolo l’unità della Repubblica. Quell’unità necessaria anche per non stare in Europa in ordine sparso.

Questo scrive lo scrittore e «storico» Piero Bevilacqua in un commento pubblicato sul Manifesto del 12 luglio. L’Italia è davvero un paese al contrario: Ignorare, negare le enclaves religiose (ebraica, valdese… per non citare quelle di più recente arrivo) ed etniche (slovena, sarda, francoprovenzale…) e definire questa supposta purezza «condizioni storiche vantaggiose»? Agitare, pur indirettamente, lo spettro della «subalternità allo straniero» (sic)? Sproloquiare sull’autogoverno come sinonimo di egoismo e basta? Fraintendere l’Europa come un progetto, un posto in cui la nazione debba per forza rimanere unita (onde salvaguardare, probabilmente, gli interessi nazionali)?

In Italia, su un quotidiano di sinistra, si può. Senza problemi.

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Storiografia e cultura diffusa.
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Il problema non riguarda la storiografia, visto che si contano molti studi importanti dedicati al razzismo e al colonialismo fascista. Piuttosto è nella cultura diffusa che sembra non esserci alcuna consapevolezza del nostro passato coloniale. E su questa base si sono andati costruendo i nuovi stereotipi. Anni fa un collega afroamericano che lavorava in Italia mi fece notare inorridito come sui nostri canali televisivi passassero in continuazione spot pubblicitari che negli Stati Uniti, non certo un paese esente dal razzismo, non sarebbero mai apparsi. Rappresentazioni grottesche o mercificanti di uomini e donne nere o delle donne più [in] generale.

Tratto da un’intervista con Brunello Mantelli apparsa ieri sul Manifesto. Mantelli è studioso dei fascismi europei e della deportazione verso i campi di sterminio nazisti e insegna Storia dei conflitti internazionali all’Università della Calabria.

Vedi anche ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 ‹5 ‹6 ‹7 | 1›

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