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L’Istria aperta e il Sudtirolo chiuso.

Il giornalista Massimiliano Boschi è stato in Istria, nella parte sotto giurisdizione slovena, e in seguito ha scritto un pezzo sulla minoranza italiana ivi residente per il settimanale sudtirolese ff.

Nell’Istria slovena sembrano, innanzitutto, rendersi conto che difficilmente sarà il mondo ad adattarsi a comunità piccole e di confine e che rinunciare a utilizzare il passato come una clava e scegliere di dialogare invece che recriminare, migliora la qualità della vita ancor prima che della convivenza.

– Massimiliano Boschi (ff n. 19/23)

Ritengo che quella appena citata sia la frase dell’articolo che meglio riassume il Boschi-pensiero:

  • Primo, la minoranza italiana in Istria è «realista» e «buona», perché arrendevole; essa ha capito che non bisogna aspettarsi troppo, che il mondo se ne frega delle minoranze e —ritornello — non si adatterà certo alle realtà plurilingui.
  • Secondo, i sudtirolesi di lingua tedesca (e ladina, forse) invece sono ottusi, non vogliono dialogare e utilizzano il passato come una clava, mentre sarebbe ora di finirla, di rinunciare e far finta di nulla.

Altrimenti detto: un membro della maggioranza nazionale italiana, tutelata al 100%, su un settimanale in lingua tedesca scrive — liberamente dialogando, e in italiano — che la minoranza nazionale tedesca non è disposta a dialogare, e che invece sarebbe meglio se la smettesse di rompere le scatole.

Come d’altronde pare facciano gli italiani in Istria, ammesso e non concesso che sia vero.

[P]er due mandati consecutivi, tra il 2010 [e] il 2018, è stato eletto sindaco di Pirano Peter Bossmann, nato in Ghana con il nome Kweku. È stato il primo sindaco nero dell’intera Slovenia. Quando potrà capitare anche in Alto Adige?

– Massimiliano Boschi (ff n. 19/23)

Domanda retorica, alla quale c’è un’unica risposta: mai, perché i sudtirolesi sono arretrati, chiusi e razzisti.

Il suo giudizio positivo sulla convivenza tra lingue diverse in Istria, Boschi lo motiva citando una conversazione tra due signore in un locale di Izola/Isola, che passano senza problemi dallo sloveno al veneto e viceversa. Come se questo in Sudtirolo, col tedesco e l’italiano, non fosse all’ordine del giorno.

E come già nei suoi articoli sull’Ostbelgien, poi, anche in questo caso fa notare con una certa insistenza che la toponomastica in Istria è bilingue. Fingendo di non capire (o non capendo davvero) che praticamente nessuno in Sudtirolo si oppone alla toponomastica bilingue nei casi in cui, come in Istria, entrambe le versioni sono storicamente fondate, ma solo dove quella «italianeggiante» è stata inventata da Ettore Tolomei e imposta dai fascisti.

Infine, presumibilmente per sottolineare il pragmatismo istriano, cita il caso dei poliziotti del territorio monolingue sloveno che, in quanto «possono sorgere problemi di comunicazione», si sono «attrezzati per fare in modo che chi parla italiano possa spiegarsi nella sua lingua potendo sempre comunicare via radio con un operatore in centrale in grado di tradurre».

Forse sbagliando deduco che:

  • i poliziotti del territorio bilingue in Istria sono veramente bilingui, cosa che in Sudtirolo non è per nulla garantito;
  • in Slovenia perfino i poliziotti del territorio monolingue si attrezzano per garantire il bilinguismo, pura fantascienza in Italia fuori dal Sudtirolo (se non eventualmente per i turisti);
  • in Istria, diversamente dal Sudtirolo, si è capito che nonostante il bilinguismo diffuso degli istriani di lingua italiana, descritto da Boschi, l’eventuale monolinguismo della polizia può creare difficoltà.

Ma io che ne so, probabilmente starò usando l’Istria come una clava. E me ne scuso.

Ad ogni modo, mentre en passant riferisce che (nonostante l’apertura mentale) anche in Istria le scuole sono separate per lingua e che gli sloveni di lingua italiana, per eleggere rappresentanti italiani, devono iscriversi in apposite liste (qui da noi si griderebbe alla schedatura etnica), Massimiliano Boschi «dimentica» che gli italiani di Slovenia hanno diritto alla doppia cittadinanza (qui da noi si griderebbe alle opzioni), dispongono di passaporti sloveni in lingua italiana e godono di servizi statali plurilingui che i sudtirolesi si sognano.

Sono comunque già curioso di sapere quale minoranza molto più aperta e avanzata della nostra (praticamente tutte) Boschi sceglierà la prossima volta per dimostrare quanto arretrati siamo.

Vedi anche ‹1 ‹2

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Carabinieri: Gewerkschaft kritisiert Befreiungstag.
False Balance

Folgende Mitteilung veröffentlichte Unarma, Gewerkschaft der italienischen Carabinieri, am Tag der Befreiung vom Faschismus (25. April) bei Facebook:

Facebook-Eintrag von Unarma (Ausschnitt)

Demnach sei es zwar wichtig »über Antifaschismus zu reden«, um die Demokratie zu ehren — doch das sei »nicht genug«, wenn das italienische Volk die Wunden der Landesgeschichte vergesse.

Eine dieser Wunden sei zum Beispiel das Massaker von »Malga Bala« im heutigen Slowenien, wo »slawische Partisanen« zwölf Carabinieri angegriffen und gefoltert hätten.

Nicht so in den Vordergrund stellt Unarma dabei leider, dass es sich bei den Getöteten um Carabinieri der sogenannten faschistischen »Sozialrepublik« (RSI) von Benito Mussolini handelte, die abgestellt worden waren, um sowohl Infrastruktur als auch Einheiten der Nazis — insbesondere die SS — vor Angriffen der Partisaninnen zu schützen.

Wie grausam der Überfall auf diese Carabinieri (die sich allesamt freiwillig für den Dienst in der RSI entschieden hatten!), auch gewesen sein mag: ihn in einem Atemzug mit der Befreiung vom Faschismus zu erwähnen und, schlimmer noch, den Wert der Befreiung herunterzuspielen, weil angeblich der faschistischen Opfer nicht ausreichend gedacht werde, ist wahrlich unerhört.

Dass eine Aussage wie die obige, die sich zum Geschichtsrevisionismus der Neofaschistinnen rund um Ardeatinische Höhlen und Karsthöhlen gesellt, diesmal von einer Gewerkschaft der Ordnungshüterinnen kommt, finde ich in höchstem Maße besorgniserregend.

Dabei wurden die zwölf angeblich »vergessenen« Carabinieri erst 2009 von Staatspräsident Giorgio Napolitano — ziemlich fragwürdig — mit dem Zivilverdienstorden in Gold der italienischen Republik ausgezeichnet, und zwar mit folgender Beschreibung:

[…] Vortreffliches Beispiel an Vaterlandsliebe, Ehrenhaftigkeit und Pflichtbewusstsein bis zur äußersten Selbstaufopferung.1Übersetzung von mir. – Original: »Preclaro esempio di amor patrio, di senso dell’onore e del dovere, spinto fino all’estremo sacrificio.«

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4

  • 1
    Übersetzung von mir. – Original: »Preclaro esempio di amor patrio, di senso dell’onore e del dovere, spinto fino all’estremo sacrificio.«
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Revisionistisches Spektakel in Südtirol.
Magazzino 18

Gerade tourt der römische Sänger Simone Cristicchi — in Kooperation mit dem Bozner Teatro Stabile — mit seinem Musical Magazzino 18 durch Südtirol. Am Montag war er damit in Bozen, am Dienstag in Meran und am Mittwoch in Bruneck. Heute tritt er in Sterzing auf, morgen noch in Brixen. Das Stück handelt von den Opfern der Karsthöhlen und von den Menschen, die aus Istrien, Rijeka und Dalmatien geflüchtet sind. Erdacht und geschrieben hat es Christicchi gemeinsam mit dem italienischen Journalisten Jan Bernas, Autor des Buches Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani.1Sie nannten uns Faschisten, wir waren Italiener Schon der Titel verrät, worum es geht: Leugnung der ideologischen Verfolgung und Konstruktion des ethnischen Motivs bis hin zum Narrativ von der ethnischen Säuberung.

Das Bühnenstück ist nach einer Lagerhalle in Triest benannt, dem Magazzino 18 eben, in der bis heute einige von Flüchtenden zurückgelassene und nicht mehr abgeholte Habseligkeiten aufbewahrt werden. Christicchi gibt gar an, sich von dem Ort an Auschwitz erinnert zu fühlen, wo systematisch und fabrikmäßig Menschen vernichtet wurden.

Kritisiert wird an dem Musical, dass es die Vorgeschichte der darin emotionalisierend, einseitig und historisch ungenau aufgearbeiteten Gegebenheiten höchstens in Nebensätzen erwähnt, sodass die Verbrechen der Faschistinnen fast vollständig untergehen. Und somit auch die wichtigste Ursache für die Abtretung der betreffenden Gebiete ans damalige Jugoslawien und auch für die Verfolgungen.

Das ist fast so, als würde man an den inneritalienischen Widerstand und an seine Opfer erinnern, ohne angemessen auf 20 Jahre Faschismus und auf den Zweiten Weltkrieg als Auslöser hinzuweisen.

Ferner wird bemängelt, dass in dem Stück die historische Multikulturalität und Multiethnizität von Istrien, Rijeka und Dalmatien zu kurz kommt. Vielmehr werden die Gebiete als bis zur Flucht grundsätzlich italienisch beschrieben, was den Tatsachen widerspricht und nostalgische, irredentistische Narrative erneuert.

Alles in allem ein Spektakel, das gut zum sogenannten Tag der Erinnerung passt, dem neofaschistischen Gedenktag, mit dem Italien, Wiege des Faschismus, seit einigen Jahren in eine neue Opferrolle geschlüpft ist. Zumindest in Südtirol hätte man darauf verzichten können.

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3

  • 1
    Sie nannten uns Faschisten, wir waren Italiener
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Demokratische Standards in der Pandemie.

Ein Forschungsteam des Varieties of Democracy Institute der Universität Göteborg hat ein Projekt gestartet, um Verletzungen demokratischer Standards (PanDem) während der Corona-Pandemie zu messen und das Risiko einzuschätzen, das diese Verletzungen für die Gesamtqualität der Demokratie darstellen (PanBack).

Kartenausschnitt PanDem-Index

  • Keinerlei Verletzungen demokratischer Standards (PanDem) im Zeitraum zwischen März 2020 und Juni 2021 konnten die Forschenden dabei in sieben europäischen Staaten (Dänemark, Deutschland, Finnland, Irland, Österreich, Portugal, Schweiz) feststellen.
  • In fünf Staaten (Frankreich, Litauen, Niederlanden, Norwegen, Rumänien) wurden geringfügige Verletzungen konstatiert.
  • Zu mäßigen Problemen kam es in 14 Staaten (Belgien, Bulgarien, Italien, Moldawien, Nordmazedonien, Russland, Schweden, Slowakei, Slowenien, Spanien, Tschechien, Ukraine, Ungarn und Vereinigtem Königreich).
  • Größere Verletzungen gab es den Erkenntnissen von PanDem zufolge nur in sieben Ländern (Albanien, Belarus, Bosnien-Herzegowina, Griechenland, Kroatien, Polen, Serbien).

Analysiert wurden die folgenden sieben Dimensionen: Diskriminierende Maßnahmen, Aussetzung unveräußerlicher Rechte, missbräuchliche Maßnahmendurchsetzung, fehlende zeitliche Begrenzung, Einschränkung der Legislative, offizielle Desinformationskampagnen sowie Einschränkung der Pressefreiheit.

Was das Risiko eines generellen Rückschlags auf die Qualität der Demokratie (PanBack) betrifft, wird dieses für den weitaus größten Teil der europäischen Staaten als sehr gering eingeschätzt.

Etwas höher liegt die Gefahr demnach nur in sechs osteuropäischen Ländern (Albanien, Belarus, Bosnien-Herzegowina, Russland, Slowenien, Ukraine), in fünf weiteren Staaten (Griechenland, Kroatien, Polen, Serbien, Ungarn) wird sie als relativ hoch eingeschätzt.

Dieser Index sagt natürlich nichts über die Wirksamkeit der gewählten Maßnahmen aus.

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4

Edgell, Amanda B., Jean Lachapelle, Anna Lührmann, Seraphine F. Maerz, Sandra Grahn, Palina Kolvani, Ana Flavia Good God, Martin Lundstedt, Natalia Natsika, Shreeya Pillai, Paul Bederke, Milene Bruhn, Stefanie Kaiser, Cristina Schaver, Abdalhadi Alijla, Tiago Fernandes, Hans Tung, Matthew Wilson, and Staffan I. Lindberg. 2020. Pandemic Backsliding: Democracy During Covid-19 (PanDem), Version 6. Varieties of Democracy (V-Dem) Institute

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Die Ehrung der RSI-Kämpfer.
Tag der Erinnerung

Seit im Jahr 2004 die Erinnerung an die Opfer der Karsthöhlen (Foibe) eingeführt wurde, vergibt der italienische Staat auch eine entsprechende Anerkennung. Sie ist für jene gedacht, die ihr Leben »für das Vaterland geopfert« haben und wird Verwandten der mutmaßlichen Opfer übergeben.

Wie die Seite Dieci Febbraio Millenovecentoquarantasette mit den Hauptautorinnen Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan und Alessandro (Sandi) Volk nachgewiesen hat, werden diese Anerkennungen regelmäßig im Gedenken an Mitglieder der faschistischen Sozialrepublik (RSI) vergeben, jenem Gebilde der Nazikollaboration, dem sich nur die überzeugtesten Faschistinnen anschlossen, die der menschenverachtenden Ideologie bis ans bittere Ende treu blieben. Gerade auch im Osten verübten sie besonders grausame Verbechen.

Bildquelle: diecifebbraio.info

Diese spezielle Anerkennung ist die einzige, über deren Vergabe der (angeblich auf dem Fundament der Resistenza gründende) italienische Staat keine einheitlichen Informationen öffentlich macht, weshalb die Aktivistinnen von Dieci Febbraio regelmäßig Pressemitteilungen verschiedenster Institutionen durchforsten, um die Namen der Geehrten in Erfahrung zu bringen. Dann gleichen sie sie mit den öffentlich zugänglichen Listen der für die RSI Gefallenen und der Vermissten ab.

Über die Ergebnisse wird ein regelmäßig aktualisiertes Verzeichnis geführt, in dem zum Jahr 2020 sage und schreibe 384 wahrscheinliche Angehörige der RSI aufscheinen — worunter sich auch einige befinden, deren schwere Verbrechen an der Zivilbevölkerung bekannt sind.

Als er 2017 eine Zwischenbilanz zog, kam Sandi Volk sogar zum Schluss, dass 77% der 323 Geehrten (Stand 2015) Faschistinnen waren.

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 / ‹5 | 1›

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Warum ich es Julien nenne.
In eigener Sache

Einigen wird vielleicht schon aufgefallen sein, dass ich in letzter Zeit mehrmals die Bezeichnung Julien statt Julisch Venetien benutzt habe. Hier möchte ich erklären, warum ich das für richtig halte.

Das Gebiet, das auf Slowenisch und auf Kroatisch gleichlautend Julijska Krajina (Endonym) sowie auf Englisch Julian March (Exonym) genannt wird — was in beiden Fällen soviel wie Julische Mark oder Julisches Grenzgebiet bedeutet —, gehört nur zu einem kleinen Teil zum italienischen Staat und ist dort erheblichenteils mit der Provinz Triest ident.

Die anderen Provinzen der als Friaul-Julisch Venetien bekannten italienischen Region bilden im Wesentlichen das Friaul — während der größte Teil von Julien heute in Slowenien und Kroatien liegt.

Die Bezeichnung Venezia Giulia stammt vom Linguisten Graziadio Isaia Ascoli, der den politisch aufgeladenen Begriff im 19. Jahrhundert gemeinsam mit jenem der Tre Venezie (oder des Triveneto) erfand. Er stellte damit eine angebliche, auch nationale, Zugehörigkeit Tirols südlich des Alpenhauptkamms sowie des Friaul und Juliens zu Venedig in den Vordergrund, was für einige Gebiete als Halbwahrheit und für andere als reine Lüge bezeichnet werden muss.

Vom italienischen Irredentismus wurde die Idee der Venezia Giulia jedenfalls dankbar aufgegriffen, da sie die erwünschte Zugehörigkeit zu Italien legitimierte und die Anwesenheit großer slawischer Bevölkerungsteile verschleierte.

Die im Faschismus offiziell eingeführte und anschließend beibehaltene Benennung ist aber bis heute irredentistisch konnotiert, da eben der größte Teil der sogenannten Venezia Giulia nicht zum italienischen Staatsgebiet gehört. Und immer noch trägt sie auch dazu bei, die slawische Bevölkerung, zumindest im zu Italien gehörenden Teil der Kraijna, unsichtbar zu machen bzw. an den Rand zu drängen.

Nicht zuletzt legitimieren die Begriffe Venezia Giulia und Venezia Tridentina auch die angebliche Existenz des Triveneto, woran ich mich auch indirekt nicht beteiligen will.

Ohne Eigenkreationen wie Julische Mark zu bemühen, werde ich also fortan statt des nationalistisch und imperialistisch konnotierten Namens die neutralere Bezeichnung Julien (im Italienischen Giulia) verwenden — und auch meine älteren Postings entsprechend anpassen.

Siehe auch ‹1 ‹2

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Banaler Nationalismus in Katalonien. Und Südtirol.

Eine Leserin hat mich auf eine Abhandlung von Dr. Hans-Ingo Radatz über Katalonien hingewiesen. Sie ist darauf gestoßen, weil sie ausgehend vom Eintrag zum banalen Nationalismus im Netz recherchiert hat.

Der Text des Professors am Institut für Romanistik der Universität Bamberg ist einer der besten überhaupt, die ich je zu den auf behandelten Themen gelesen habe.

Aus der Abhandlung von Dr. Radatz zitiere und kommentiere ich hier deshalb einige auch längere Passagen, in denen es zwar um Katalonien geht, die aber außerordentlich gut auch zur Situation in Südtirol passen. Die Unterstreichungen sind von mir.

In Deutschland stoßen [die katalanischen] Forderungen auf wenig Verständnis, da man in ihnen vor allem den Ausdruck einer gefährlichen und verachtenswürdigen politischen Ideologie sieht: des Nationalismus. Dabei wird übersehen, dass [sie] nicht zuletzt auch die erschöpfte und verzweifelte Reaktion auf einen tief verwurzelten spanischen Staatsnationalismus sind, der, im Sinne von Michael Billigs banal nationalism, im Verborgenen wirkt und im Ausland praktisch nicht thematisiert wird.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Genauso wird der italienische Staatsnationalismus in Südtirol — aber auch gegenüber den anderen noch nicht vollständig assimilierten Minderheiten in Italien — als normal empfunden und Widerstand dagegen meist als etwas völlig Unverständliches dargestellt (‹1 ‹2 ‹3).

Geht es [in deutschen bzw. ausländischen Medien] um die spanische Seite, ist die Rede vom “spanischen Ministerpräsidenten”; der genauso demokratisch gewählte katalanische Minsterpräsident wird dagegen nicht selten als “Separatistenführer” bezeichnet.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Die insgesamt ablehnende Haltung gegenüber den katalanischen Bestrebungen ist Bestandteil eines mehrheitsfähigen nationalismuskritischen Diskurses, der deswegen nicht explizit gemacht wird, weil er der gebildeten Öffentlichkeit als selbstverständlich gilt und allein durch das Thema der Unabhängigkeitsforderung evoziert wird. Eine Nation kann demzufolge nur ein Volk innerhalb staatlicher Grenzen sein und “Nationen ohne Staat” sind demgegenüber folglich keine Nationen, sondern “Unruheprovinzen”, insbesondere dann, wenn wir davon ausgehen können, dass die Staaten demokratisch regiert werden. Nach dieser Überzeugung ist Katalonien also höchstens eine “Region”, aber von Natur aus niemals eine Nation; Regionen ihrerseits sind aber naturgemäß eine interne Angelegenheit des betreffenden Staats. Und in keinem Fall unsere. Kurioserweise ist es also für unsere nationalismuskritische Öffentlichkeit eine Selbstverständlichkeit, dass wir uns in solche internen Belange nicht einzumischen haben, weil die Souveränität von Nationalstaaten – also die Nation – eines der höchsten Rechtsgüter überhaupt ist. Der unverbrüchliche Respekt vor dem Nationalismus der Staaten ist ein zentrales Element des üblichen antinationalistischen Diskurses.

Insofern gibt es für uns auch kein echtes Katalonienproblem: Katalonien ist demnach wesensmäßig und unabänderlich eine spanische Region und anderslautende Forderungen können daher nur als unseriös gelten. Nach dieser Sichtweise entsteht der Konflikt dadurch, dass Spanien in vernünftiger Weise den Rechtsstaat verteidigt, während katalanische Rebellen eine offensichtlich irrationale Position verteidigen. Diese selbstverständlichen Argumente muss man in deutschen Medien nicht ausformulieren; die begleitenden Leserbriefe übernehmen die Ausführung verlässlich: “Anachronismus, jetzt wo Europa zusammenwächst”, “korrupte Rattenfängerelite führt das katalanische Volk ins Unglück”, “Katala-Nazis wollen Spanien zerstören”, “Vorwand, um sich vor der Solidarität mit Andalusien zu drücken” … Interessant an dieser liberal auftretenden Kritik ist allerdings, dass sie ausschließlich Unabhängigkeitsbewegungen betrifft, die ihr Ziel (noch) nicht erreicht haben. Ist der neue Staat erst einmal etabliert, verstummen sie sofort: aus Respekt vor der Souveränität des neuen Nationalstaats!

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Die etablierten Nationalstaaten erhalten dabei den Nimbus grundvernünftiger, ja nahezu naturgesetzlicher Notwendigkeiten; sie werden unantastbar und unhinterfragbar und ihr Nationalismus wird diskursiv zu einem harmlosen Patriotismus euphemisiert. Alle Bewegungen und Gruppierungen aber, die eine Veränderung dieses status quo anstreben, um ihrerseits einen eigenen Nationalstaat zu erringen, werden als gefährliche Brandstifter hingestellt, die den labilen Konsens der Staatsgrenzen in Frage stellen und so die Gefahr erneuter nationalistischer Kriege heraufbeschwören. Diese Gruppen werden in der öffentlichen Wahrnehmung als gefährliche “Nationalisten” gesehen.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Der britische Soziologe Michael Billig hat 1995 in seinem Buch Banal Nationalism überzeugend gezeigt, dass unser Diskurs über (und gegen) den Nationalismus von einer Wahrnehmungsstörung geprägt ist, die uns Nationalismus nur dort sehen lässt, wo nicht-staatliche Gruppen auf Veränderung drängen, nicht aber dort, wo der alltägliche, banale Nationalismus der etablierten Nationalstaaten am Werke ist[.]

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Billig bezeichnet diesen unbemerkten Alltagsnationalismus als banal nationalism; von der Nationalismuskritik wird er höchstens am Rande wahrgenommen und kann in jedem Fall auf Milde hoffen.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Während der reivindikative Nationalismus nicht-staatlicher Akteure in westlichen Gesellschaften vehement zurückgewiesen wird, ist der eigene “banale” Nationalismus kein Thema.

Niemand würde es daher mehr wagen, das Kleinstaaterei-Argument auf Irland, Lettland, Norwegen oder Slowenien anzuwenden oder diese Staaten heute noch für ihren historischen Separatismus kritisieren.

Dass sie allesamt ihre staatliche Unabhängigkeit erst in jüngster Zeit durch eine völkerrechts- und verfassungswidrige Loslösung von Großbritannien, der Sowjetunion, Dänemark oder Jugoslawien erkämpft haben, ist vergeben und vergessen. Dabei macht es für die öffentliche Wahrnehmung offenbar keinen Unterschied, ob die Loslösung von einem diktatorischen Unrechtsstaat oder von einer parlamentarischen Demokratie erfolgte! Der Erfolg lässt jeden Makel der Illegalität oder des “nationalistischen Fanatismus” verschwinden und der neugeborene Nationalstaat kann nun auf dasselbe Wohlwollen der Nationalismuskritiker hoffen, das seinerzeit, in der heißen Phase des Konflikts, nur der ehemaligen Titularnation entgegengebracht worden war. Von den 29 Mitgliedsstaaten der EU hat fast ein Drittel die Unabhängigkeit erst im Lauf des 20. Jahrhunderts erlangt[.]

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Außerhalb der EU könnten [sic] man zudem noch das Kosovo und Montenegro nennen. In allen Fällen gab es Rechtsbrüche, gewaltsame Auseinandersetzungen, Völkerrechtsverstöße, die aber heute höchstens noch in historischer Perpektive diskutiert werden, den betreffenden Staaten aber im öffentlichen Diskurs nie mehr vorgehalten werden.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

[Die Zurückdrängung der baskischen, galicischen und katalanischen Sprache] ist nicht einfach nur sprachdarwinistisches Schicksal, sondern durchaus auch Ergebnis überkommener spanischer Sprachenpolitik, die die Regionalsprachen zwar heute nicht mehr aktiv unterdrückt, wohl aber noch asymmetrisch behandelt: Alle Bürger der Region dürfen die Regionalsprache verwenden; als Bürger Spaniens aber müssen sie zugleich die spanische Sprache beherrschen. Faktisch bedeutet das nicht nur für den Amtsverkehr: Ein einziger monolingualer Spanier kann damit regelmäßig alle anderen Anwesenden zum Sprachwechsel veranlassen.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Dies ist uns auch in Südtirol trotz formalen Rechts auf Gebrauch der Muttersprache bestens bekannt.

Dass diese politische Lösung, das sogenannte Individualprinzip, nicht selbstverständlich ist, sieht man an der Behandlung von Regionalsprachen z.B. in Kanada, der Schweiz oder Belgien, wo das Territorialprinzip gilt: Hier garantiert der Staat seinen Bürgern, dass innerhalb der betreffenden Territorien die Regionalsprache obligatorisch ist und damit als vollwertige Alltags-, Kultur- und Amtssprache fungiert.

Das heißt beispielsweise für die Bürger des kanadischen Québec, dass sie ihr gesamtes Leben in französischer Sprache abwickeln können, ohne je gezwungen [!] zu werden, im Kontakt mit Behörden das Englische zu verwenden. Flamen müssen [!] kein Französisch und Wallonen kein Niederländisch sprechen, um vollwertige belgische Staatsbürger zu sein. Und in vielen Orten des Engadins im Kanton Graubünden ist gar Vallader (einer der sieben traditionellen Schriftdialekte des Bündnerromanischen) einzige Behörden- und Schulsprache. Was also in Spanien wie eine höchst großzügige Sprachenpolitik wirkt, ist es im internationalen Vergleich mit anderen mehrsprachigen oder multinationalen Staaten nicht unbedingt.

Dazu kommt noch, dass Katalonien als wichtige Industrie- und Tourismusregion bevorzugtes Ziel innerspanischer Migration war und immer noch ist. Der spanische Sprachnationalismus und seine gesetzliche Ausgestaltung sorgen dafür, dass den Zuwanderern staatlicherseits bescheinigt wird, dass eine sprachliche Integration in Katalonien nicht nötig ist und dass das Katalanische eine Angelegenheit ist, die nur die Katalanen betrifft.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Auch Südtirol als wirtschaftlich erfolgreiches Land zieht viele Menschen aus Italien an, jedenfalls im Verhältnis zur Einwohnerinnenzahl. Und auch hier haben Zuwandernde (von innerhalb und außerhalb Italiens) eine sprachliche Integration ins Deutsche oder gar Ladinische sehr häufig nicht nötig.

Im Alltag bedeutet dies, dass ein Leben auf Katalanisch ein ständiger Kampf ist. Die Kassiererin im Supermarkt versteht natürlich, was der Kunde ihr auf Katalanisch sagt (“Ein[e] Plastiktüte, bitte!”), hat aber keine Lust, es zu verstehen. Es sind die alltäglichen kleinen Machtkämpfe: “Sprechen Sie Spanisch, ich verstehe Sie nicht!” Die meisten einsprachigen Zuwanderer haben nicht das Gefühl, dass ihnen ohne die Landessprache etwas fehlte. Im Gegenteil: Die Haltung ist, dass wir hier schließlich in Spanien sind und niemand mit einer “fremden” Sprache belästigt werden sollte. Also wechselt der Kunde im Supermarkt ins Spanische, weil alle Katalanischsprecher (oft zu ihrem Nachteil) perfekt zweisprachig sind. Oder er insistiert und wiederholt seine Bitte auf Katalanisch. Die Schlange in seinem Rücken rollt mit den Augen. Bei der dritten Wiederholung wird ihm die Kassiererin schließlich wütend eine Plastiktüte hinwerfen, weil sie plötzlich doch versteht, was gewünscht war. Jeder Katalanischsprecher kennt diese Situationen bis zum Überdruss. Das Nicht-Beherrschen der Landessprache beschämt die Einsprachigen normalerweise nicht etwa; man hört immer wieder “Wie bitte!?”, “Auf Spanisch, wir sind hier in Spanien!”

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Wir kennen das (‹1 ‹2).

Diese kleinen Alltagskämpfe enden fast immer zugunsten der monolingualen Spanischsprecher, denn der Sozialdruck der Umstehenden drängt stets, sich nicht so anzustellen. Schließlich können wir doch alle Spanisch. In großen historisch katalanischsprachigen Städten wie Valencia oder Palma hört man die Sprache immer weniger und auf den Schulhöfen passen sich die bilingualen katalanischsprachigen Kinder wie selbstverständlich ihren monolingualen spanischsprachigen Schulkameraden an; selbst in Barcelona kann zwar fast jeder Katalanisch, aber gewohnheitsmäßig gesprochen wird es dort gerade noch von einem Drittel der Bevölkerung.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

In Bozen ist gar nur noch ein Viertel der Bevölkerung deutscher Muttersprache.

Interessant ist bei alledem die zugrundeliegende scheinbar pragmatische, im Grunde aber nationalistische Annahme, die [viele über Katalonien berichtende Journalistinnen] hier an den Tag legen: die Überzeugung nämlich, dass die Sprache der spanischen Nation automatisch wichtiger ist als das Katalanische, dem es ansonsten an nichts als nur an dieser Würde mangelt: eine Staatssprache zu sein.

Die allgegenwärtige Intuition, dass der banale Nationalismus der etablierten Nationalstaaten unproblematisch sei, macht es auch hier überflüssig, das Argument überhaupt auszuformulieren. Spanisch ist eben eine echte, vollwertige Sprache (mit “Armee und Flotte”, wie es der Jiddisch-Sprachforscher Max Weinreich einmal formuliert haben soll), das Katalanische dagegen irgendein Folkloreprodukt, ein Dialekt, eine Halbsprache.

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Selbst die deutsche Sprache in Südtirol — obschon Teil eines größeren Sprachraums — wird nicht selten mit allseits bekannten, aber größtenteils völlig erfundenen Argumenten wie »die sprechen nur einen unverständlichen Dialekt«, »das ist kein Deutsch«, »die beherrschen ihre eigene Sprache gar nicht richtig« oder »die werden in Deutschland/Österreich nicht einmal verstanden« in die Ecke des Folkloreprodukts, der Halbsprache gedrängt. Auch das ist wohl ein Reflex, der auf banalem Nationalismus beruht (‹1).

[Manche] kritisieren es scharf, wenn in Barcelona das Katalanische das Spanische verdrängen sollte. Ihre Kritik bleibt allerdings ein wenig ahistorisch am gegenwärtigen Einzelfall hängen, in dem eine einzelne kleine Sprache sich gegen eine übermächtige Staatssprache zu behaupten sucht. Ein solcher Kampf ist demnach eine anachronistische Eulenspiegelei. Hat ein solcher Kampf allerdings erst einmal zum Erfolg geführt, verschwindet der betreffende Fall sofort spurlos aus diesem kritischen Diskurs: Dass das einst schwedische Helsingfors heute Helsinki heißt und Finnisch spricht, ist in diesem Kontext nämlich nie Thema. Ebensowenig wie der Sprachwandel Revals (Tallinn) zum Estnischen oder der von Wilna vom Polnischen zum Litauischen (Vilnius). Der eigene Nationalstaat heilt alle Sünden der Vergangenheit!

— Dr. Hans-Ingo Radatz

Der Originaltext ist vom 14. Oktober 2019 (Erstveröffentlichung auf der Website von Peira – Gesellschaft für Politisches Wagnis e.V).

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 | 1› 2›

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Bundespräsident entschuldigt sich bei Kärntner Sloweninnen.

Genau heute jährt sich die Annexion Südtirols durch Italien zum hundertsten Mal. Daneben fanden in Kärnten/Koroška die Feierlichkeiten zu hundert Jahren Volksabstimmung statt, bei der sich die Bevölkerung demokratisch für den Verbleib bei Österreich entscheiden konnte und es auch tat. Erstmals nahm an einem solchen Jubiläum mit Borut Pahor auch ein slowenisches Staatsoberhaupt teil.

Im Rahmen der Feierlichkeiten entschuldigte sich Bundespräsident Alexander Van der Bellen im Wappensaal des Klagenfurter Landhauses auf Deutsch und Slowenisch offiziell bei der slowenischen Minderheit

für das erlittene Unrecht und für die Versäumnisse bei der Umsetzung von verfassungsmäßig garantierten Rechten.

Wir können die Vergangenheit nicht ändern, aber wir können die Zukunft ändern. Das Glück ist auf der Seite der Mutigen.

Kritik an der Geste kam von der FPÖ.

Nach der Volksabstimmung und dem Zerfall des Vielvölkerstaats fanden sich Kärntens Sloweninnen in einem nahezu einsprachig deutschen Staat wieder. Im Nationalsozialismus wurden sie aktiv verfolgt und teilweise umgesiedelt — doch auch in jüngeren Jahren mussten sie immer wieder um grundlegende Rechte kämpfen.

Quelle: Twitter

Auf der symbolischen Ebene ist die Entschuldigung von Bundespräsident Van der Bellen eine großartige, geradezu historische Geste. Sie könnte aber auch konkrete Folgen entfalten, wenn das Bewusstsein für die slowenische Minderheit gestärkt wird.

Schon im Vorfeld der Feierlichkeiten hatte die schwarz-grüne Regierung die Volksgruppenförderung verdoppelt.

Südtirol, dem die Selbstbestimmung verwehrt wurde, wartet noch immer vergeblich auf eine offizielle Entschuldigung für die Annexion oder für das im Faschismus erlittene Unrecht.

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 ‹5 ‹6

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