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Carabinieri: Gewerkschaft kritisiert Befreiungstag.
False Balance

Folgende Mitteilung veröffentlichte Unarma, Gewerkschaft der italienischen Carabinieri, am Tag der Befreiung vom Faschismus (25. April) bei Facebook:

Facebook-Eintrag von Unarma (Ausschnitt)

Demnach sei es zwar wichtig »über Antifaschismus zu reden«, um die Demokratie zu ehren — doch das sei »nicht genug«, wenn das italienische Volk die Wunden der Landesgeschichte vergesse.

Eine dieser Wunden sei zum Beispiel das Massaker von »Malga Bala« im heutigen Slowenien, wo »slawische Partisanen« zwölf Carabinieri angegriffen und gefoltert hätten.

Nicht so in den Vordergrund stellt Unarma dabei leider, dass es sich bei den Getöteten um Carabinieri der sogenannten faschistischen »Sozialrepublik« (RSI) von Benito Mussolini handelte, die abgestellt worden waren, um sowohl Infrastruktur als auch Einheiten der Nazis — insbesondere die SS — vor Angriffen der Partisaninnen zu schützen.

Wie grausam der Überfall auf diese Carabinieri (die sich allesamt freiwillig für den Dienst in der RSI entschieden hatten!), auch gewesen sein mag: ihn in einem Atemzug mit der Befreiung vom Faschismus zu erwähnen und, schlimmer noch, den Wert der Befreiung herunterzuspielen, weil angeblich der faschistischen Opfer nicht ausreichend gedacht werde, ist wahrlich unerhört.

Dass eine Aussage wie die obige, die sich zum Geschichtsrevisionismus der Neofaschistinnen rund um Ardeatinische Höhlen und Karsthöhlen gesellt, diesmal von einer Gewerkschaft der Ordnungshüterinnen kommt, finde ich in höchstem Maße besorgniserregend.

Dabei wurden die zwölf angeblich »vergessenen« Carabinieri erst 2009 von Staatspräsident Giorgio Napolitano — ziemlich fragwürdig — mit dem Zivilverdienstorden in Gold der italienischen Republik ausgezeichnet, und zwar mit folgender Beschreibung:

[…] Vortreffliches Beispiel an Vaterlandsliebe, Ehrenhaftigkeit und Pflichtbewusstsein bis zur äußersten Selbstaufopferung.1Übersetzung von mir. – Original: »Preclaro esempio di amor patrio, di senso dell’onore e del dovere, spinto fino all’estremo sacrificio.«

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4

  • 1
    Übersetzung von mir. – Original: »Preclaro esempio di amor patrio, di senso dell’onore e del dovere, spinto fino all’estremo sacrificio.«
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Ramelli: Befriedung mit Faschogruß.
Giuseppe Sala und Ignazio La Russa

Zum wiederholten Mal hat gestern der grüne Bürgermeister von Mailand, Giuseppe Sala, an der Gedenkfeier für den 1975 von Linksextremisten umgebrachten Neofaschisten Sergio Ramelli teilgenommen, der inzwischen zu einer Märtyrerikone des italienischen Rechtsextremismus avanciert ist. Jahr für Jahr treffen sich in der lombardischen Hauptstadt hunderte Faschistinnen, um am Schauplatz des Mordes eine schauderhafte Zeremonie mit römischen Grüßen abzuhalten. Heuer sollen sich rund tausend Teilnehmerinnen eingefunden haben.

Immer wieder waren in den vergangenen Jahren auch wichtige Vertreterinnen von FdI wie der EU-Abgeordnete Carlo Fidanza bei diesem grässlichen »inoffiziellen« Teil der Gedenkfeier zugegen.

Tweet von Repubblica

Die Beteiligung des Mailänder Bürgermeisters am offiziellen Teil geht indes auf Giuliano Pisapia (PD) zurück — seine Vorgängerin Letizia Moratti (FI) war nie dabei gewesen.

Besondere Brisanz hatte die diesjährige Veranstaltung allerdings, weil Giuseppe Sala daran Seite an Seite mit dem Senatspräsidenten Ignazio Benito La Russa (FdI) teilnahm. Der war wenige Tage zuvor, am Tag der Befreiung vom Faschismus, nach Tschechien geflüchtet, wo er demonstrativ an den Ehrungen für den antisowjetischen Studenten Jan Palach teilnahm.

Im Vorfeld des 25. Aprils hatte er keck behauptet, in der italienischen Verfassung sei gar nicht von Antifaschismus die Rede.

Fragen der Journalistinnen, die gestern wissen wollten, was er vom inoffiziellen Teil der Gedenkfeiern halte — den zu erwartenden römischen Grüßen — wich La Russa auf arrogante und aggressive Weise aus (vgl. ‹1 ‹2). Stattdessen sprach er von »nationaler Befriedung«, einem rechten Code für die Gleichstellung von Faschismus und Antifaschismus, die er allerdings mit seiner Abwesenheit am 25. April selbst verraten hat.

Dieser »Befriedung« unter revisionistischen Vorzeichen leistete der grüne Bürgermeister mit seiner Anwesenheit — bei gleichzeitiger Duldung der extremistischen Zeremonien — jedoch erneut Vorschub. Bei der letztjährigen Feier stand übrigens Giorgia Meloni (FdI) direkt neben ihm, damals noch als Oppositionspolitikerin.

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 ‹5 ‹6 ‹7 ‹8 ‹9

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Il fascismo non finì con la Liberazione.
Quotation · Francesco Filippi

Quella che le leggi razziali italiane del 1938 siano una brutta copia imposta dai nazisti all’alleato italiano è una bufala. Al contrario, i fascisti sono i primi a legiferare in ambito razziale. Quelle del 1938 applicate in Italia sono emanazione diretta del sistema di leggi per la costruzione dell’apartheid nell’Africa orientale italiana che data 1937. Il diritto razzista italiano è totalmente made in Italy. Il fascismo nasce razzista, nasce xenofobo, nasce antidemocratico. E questo è un fatto perché fu lo stesso Mussolini a rivendicarlo.

Un altro esempio del primato fascista?
In Libia, dove l’Italia inaugurò l’uso dei campi di concentramento: la costruzione della cosiddetta “pacificazione” del Paese nordafricano fu in realtà un’operazione di pulizia etnica nei confronti delle popolazioni della regione del Fezzan e del Sud della Libia, dove il maresciallo Rodolfo Graziani, al comando in quelle aree, si guadagnò il soprannome di “macellaio del Fezzan” per i metodi brutali nella repressione della Resistenza in Tripolitania e Cirenaica. E pensare che al gerarca Graziani hanno recentemente eretto un mausoleo!

Non dobbiamo dimenticare che il fascismo fu un esperimento sociale che durò vent’anni. Non possiamo credere che possa finire con la Liberazione, con la firma della pace. La comunicazione, il racconto pubblico, l’identità costruita furono un brodo di coltura efficace che coinvolse 40 milioni di italiani. Ancora oggi, quando parliamo della nostra identità, abbiamo a che fare con parole che sono state inserite nella storia del Paese attraverso l’esperimento fascista. Il termine nazione, ad esempio, è sporcato da quel passato in un modo che non ha pari in altri Paesi e questo anche per la mancata epurazione del fascismo nel secondo dopoguerra. Per raccontare se stessa, una parte dell’Italia è costretta a utilizzare parole nate e cresciute all’interno del fascismo. E fino a quando non faremo i conti con le parole che circondano il nostro passato non saremo pienamente in grado di raccontarlo nel modo giusto, anche a noi stessi.

Francesco Filippi, storico e autore di libri sul fascismo, intervistato dal Fatto Quotidiano (stralci). Enfasi ripresa dall’originale.

Serie I II

Vedi anche ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 ‹5 ‹6 ‹7 ‹8

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Trasferita la salma del fascista Primo de Rivera.

Nell’autunno del 2019, su iniziativa del governo spagnolo di Pedro Sánchez (PSOEera stata riesumata dal monumentale complesso della valle dei Caduti (Valle de los Caídos) e trasferita nel cimitero di Mingorrubio presso Madrid l’ingombrantissima salma del dittatore Francisco Franco.

Quasi esattamente tre anni dopo, come ulteriore tassello del processo di rielaborazione storica, la valle stessa, sita a circa 50 chilometri dalla capitale spagnola, nell’ottobre del 2022 ha anche ripreso il suo nome storico di Cuelgamuros, perdendo definitivamente quello voluto dal regime franchista.

Ieri invece è stata la volta di José Antonio Primo de Rivera, fondatore del partito fascista Falange Española, giustiziato nel 1936 e anche lui sepolto a Cuelgamuros. Come già previsto sin dal 2017, i suoi resti sono stati riesumati e trasferiti altrove. Immediatamente sottoposti a cremazione, sempre nella giornata di ieri sono stati collocati accanto a quelli di altri suoi famigliari nel cimitero madrileño di San Isidro.

Svariati fascisti simpatizzanti della Falange hanno tentato di impedire la riuscita dell’operazione, ma — pur non senza fatica — sono stati tenuti a bada dalle forze dell’ordine.

La salma di Primo de Rivera, figlio del dittatore Miguel, era stata ricollocata a Cuelgamuros su iniziativa di Franco nel 1959, anno di inaugurazione del complesso monumentale, a più di vent’anni dalla morte.

Oltre a quelle di personaggi di spicco del franchismo, tuttavia, a Cuelgamuros si trovano decine di migliaia di tombe di vittime di entrambe le parti della guerra civile spagnola, repubblicani e franchisti. Ai loro famigliari verrà ora data la possibilità di scegliere se spostarli o invece lasciarli dove il regime franchista aveva deciso di seppellirli.

Vedi anche ‹1 ‹2 ‹3

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Bern: Ein Wandbild als Vorbild.

Im öffentlichen Auftrag erschaffen die beiden sozial engagierten Künstler Eugen Jordi und Emil Zbinden 1949 an der Berner Schule Wylergut ein illustriertes Wand-ABC. Es besteht aus asymmetrisch angeordneten Bildkacheln, deren Inhalt jeweils einem Buchstaben des Alphabets zugeordnet ist: A wie Affe, E wie Esel, K wie Kuh. Neben hauptsächlich Tieren kommen auch Menschen vor, jedoch handelt es sich dabei stets um rassistische Fremdbezeichnungen (Buchstaben I und N) und stereotypisierende Darstellungen (zusätzlich Buchstabe C), die sich auf nichtweiße Gruppen beziehen. Nach Jahrzehnten der Gleichgültigkeit wird diese Tatsache nunmehr seit Jahren thematisiert und problematisiert. Zunächst werden die betreffenden Kacheln verdeckt, dann noch 2020 von Unbekannten mit schwarzer Farbe übermalt.

Da sie das denkmalpflegerisch als »erhaltenswert« eingestufte Wandbild »mit hoher malerischer Qualität« gerade in einem Schulgebäude für inakzeptabel hält, schreibt die Stadt Bern im Sommer 2019 einen transdisziplinären Wettbewerb aus, um Wege für die Kontextualisierung zu finden.

Gemeinsamer Lernprozess

Schlussendlich gewinnt auf einstimmige Empfehlung der Jury »Das Wandbild muss weg!«, ein Projekt, das die vollständige Entfernung des Kunstwerks aus dem Schulhaus und seine Überbringung ins Bernische Historische Museum BMH fordert. Dort sei der geeignete Ort für eine öffentliche Debatte über strukturellen Rassismus und Kolonialismus — nicht an einer Primarschule mit einer immer diverseren Schülerinnenschaft. Seit März 2021 wird auf die Abnahme hingearbeitet, die bis 2024 abgeschlossen sein soll. Der gesamte Prozess wird — auch im Netz — für alle nachvollziehbar dokumentiert, begleitend finden Workshops für Lehrkräfte (aus denen Lehrmaterialien für alle Berner Schulen entstehen sollen) und öffentliche Veranstaltungen statt.

Auch Eugen Jordi und Emil Zbinden waren geprägt vom Imperialismus und Rassismus der Nachkriegszeit in der Schweiz – in Sprache, Darstellung und Weltsicht. Selbst wenn sie keine rassistische Absicht hatten, muss das Wandbild aus heutiger Sicht als rassistisch gelesen werden. Uns ist wichtig zu betonen: Wir sind alle rassistisch sozialisiert, weil unsere koloniale Vergangenheit in unsere gesellschaftlichen Strukturen heute hinein wirkt. Wir wollen keine Fingerzeige machen, sondern aufzeigen, wie wir gemeinsam gegenüber unserer rassistischen Sozialisierung sensibler werden können, um bewusst gegen Rassismus in seinen vielfältigen Formen anzugehen.

— Projekt »Das Wandbild muss weg!«

Das Projekt umfasst ferner eine gesellschaftliche und schulinterne Auseinandersetzung. Den »Erinnerungs- und Verlernensprozess« soll im Dialog mit rassismusbetroffenen Menschen und den Erbinnen der Künstler eine temporäre künstlerische Installation an oder neben der vom Wandbild hinterlassenen Leerstelle begleiten.

Siehe auch ‹1 ‹2

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FdI will Karsthöhlendenkmale in allen Südtiroler Gemeinden.
Revisionistische Agenda

Marco Galateo von den neofaschistischen Fratelli d’Italia (FdI), der für seinen Parteikollegen Alessandro Urzì in den Landtag nachgerückt ist, will, dass in jeder Südtiroler Gemeinde ein Gedenkort für die Opfer der Karsthöhlen und für die Vertriebenen aus Julien und Dalmatien errichtet wird. Dazu hat er jetzt im Landtag eine Anfrage (Nr. 2538/23) an die Landesregierung hinterlegt.

Für FdI sind die Opfer der Karsthöhlen geradezu eine Obsession, da ihnen die damit verbundenen Geschichtsverdrehungen die Möglichkeit bieten, Opfer des Faschismus und Opfer des Widerstands (und somit auch Faschismus und Widerstand selbst) auf eine Stufe zu stellen (vgl. ‹1).

Galateo kann sich nicht nur auf die höchst fragwürdige Anerkennung des »Karsthöhlenmassakers« durch den italienischen Staat berufen, sondern beispielsweise auch auf die Tatsache, dass die von Mittelinks geführte Südtiroler Landeshauptstadt seit Jahren viel Geld und Aufmerksamkeit in den Karsthöhlen-Revisionismus investiert.

Im Vorspann zu seiner Anfrage gibt der FdI-Mann zudem bekannt, dass auch die Stadt Meran auf Vorschlag der Neofaschisten beschlossen habe, den »Märtyrerinnen« und den Vertriebenen eine Stele oder eine Erinnerungstafel zu widmen — wohingegen Brenner und Neumarkt ähnliche Vorschlägen von Rechts abgelehnt hätten.

Hierzu bemängelt der Landtagsabgeordnete, dass es weiterhin erst- und zweitklassige Opfer gebe, was tief in seine eigentlichen Absichten blicken lässt (vgl. ‹1). Auf der anderen Seite stellt er in den Prämissen seiner Anfrage »Kriminelle, Partisanen und titinische Kommunisten« auf eine Stufe — und bringt auch noch geschickt die bei Rechtsextremen beliebte, um ein Vielfaches aufgeblasene Opferzahl von 20.000 unter, die keiner wissenschaftlichen Überprüfung standhält.

Auf die Antwort der Landesregierung darf man gespannt sein.

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 ‹5 | 1› 2›

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Autorinnen und Gastbeiträge

Ma chi erano quelli del «Bozen»?

Lorenzo Vianini

Nel marzo 1944 Roma è sotto il controllo tedesco da diversi mesi e nonostante la mancata organizzazione della difesa della città, come il resto del paese lasciata in balia di sé stessa dopo la fuga del Re e Badoglio, la città dimostrò da subito come non intendesse collaborare con l’occupante. La battaglia di Porta San Paolo del 10 settembre sarà solo l’inizio della resistenza cittadina, che nei mesi precedenti al 23 marzo vedrà oltre sessanta azioni contro l’occupante e il suo alleato fascista.

L’azione dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) si inserisce quindi in un contesto più ampio, in cui gli stessi comandi tedeschi cercavano di tenere basso il livello dello scontro, per mantenere calma la popolazione e poter usare la città come retrovia del vicino fronte. Fino a quel momento la risposta dell’occupante a bombe gappiste, sabotaggi e sparatorie si era limitata a fucilazioni di persone già condannate a morte, rastrellamenti o ordinanze repressive. Ma l’azione di via Rasella rappresenta un salto di qualità, il più eclatante attacco alle forze naziste in una capitale europea: un ordigno dei GAP e l’esplosione di diverse granate dell’unità militare bersaglio dell’azione, uccidono 33 soldati e ne feriscono gravemente almeno altri 45 (presenti sulla Verlustliste dell’unità, quindi perdite). Nonostante gli sforzi dei gappisti, che anche a rischio di far fallire l’operazione evacuano molti civili presenti, le esplosioni uccidono anche due civili, mentre altri cinque verranno uccisi dalle forze di occupazione nei momenti concitati successivi all’azione.

Le autorità naziste decidono di eseguire una rappresaglia esemplare, un’enorme vendetta per atterrire la popolazione locale e far così mancare il suo sostegno a chi resisteva con le armi. Nel giro di ventiquattrore viene così ordinata ed eseguita, anche con l’aiuto delle autorità fasciste e della questura di Roma, l’uccisione di 335 persone. Per anni è stata discussa la possibilità che i gappisti potessero evitare la rappresaglia consegnandosi, oppure evitare proprio di agire perché sapevano quali sarebbero state le conseguenze: in entrambi i casi si tratta di falsi storici, perché non esisteva al tempo alcuna «Repressalquote» di 10 a 1 né un automatismo nella realizzazione delle rappresaglie, mentre i famosi comunicati via radio o tramite cartelloni sono ancora oggi testi invisibili, mai scovati da nessuno in alcun archivio o fondo privato, addirittura esclusi dall’Oberbefehlshaber Südwest Albert Kesselring (anche se la sua testimonianza meno affidabile tra quelle rese ai processi alle Fosse Ardeatine, avendo lo stesso mentito sul suo coinvolgimento per evitare la pena di morte – v. Raiber 2002, von Lingen 2004).

Soldati sudtirolesi a Roma – Un’immagine dalla serie di articoli di Umberto Gandini per l’Alto Adige, 1977

Il luogo della strage, le Fosse Ardeatine, sono diventate nel dopoguerra uno dei principali luoghi della memoria italiani. In Sudtirolo sarà invece Via Rasella ad essere al centro dell’attenzione, per via della provenienza del reparto attaccato: il Polizeiregiment «Bozen», giunto in città a febbraio dopo quattro mesi di addestramento.

Chi erano allora, quelli del Bozen?

Con l’armistizio dell’8 settembre, le truppe della Wehrmacht attraversano il Brennero per unirsi a quelle già presenti sul territorio, che sarà così diviso in tre settori: in avanzamento da sud, i territori sotto il controllo del governo Badoglio e degli alleati; più a nord, la Repubblica Sociale Italiana; sui territori del confine nord-orientali, le due Zone di Operazioni sotto il diretto controllo del Terzo Reich. Il Sudtirolo faceva parte dell’Operationszone Alpenvorland (OZAV), posta sotto il comando del Gauleiter del Tirolo Franz Hofer, che immediatamente si attiverà per l’utilizzo della popolazione locale per le esigenze belliche. Il Sudtirolo era infatti considerato una importante «riserva», una sacca di risorse umane per la guerra da reclutare tra la popolazione di lingua tedesca.

Le linee guida elaborate da Hofer saranno però elaborate solo a partire dal novembre 1943, mentre il reclutamento per il Polizeiregiment «Bozen» era iniziato già il 1° ottobre. Per questo motivo esisteranno molte differenze tra questo reggimento ed i successivi – Schlanders, Alpenvorland e Brixen: per esempio, l’ordinanza che introduce la Sippenhaft e la pena di morte per i disertori, obbligando all’arruolamento tutti gli optanti e Dableiber delle classi nate tra il 1894 e 1926, è del 6 gennaio 1944, quando il «Bozen» ha già concluso l’addestramento.

Inizialmente denominato Polizeiregiment «Südtirol» e formato da circa 2.000 uomini delle coorti tra il 1900 e il 1912, il primo reggimento venne poi denominato «Bozen» e integrato con successivi innesti, come dimostra la composizione della compagnia attaccata in Via Rasella – dove il più anziano era Jakob Erlacher (43 anni), mentre il più giovane era il ventitreenne Arthur Atz. Spesso si trattava di reduci dell’esercito italiano, in particolare delle campagne d’Africa, e in larga parte erano optanti per la Germania, perché considerati politicamente più affidabili, spesso reclutati su base volontaria – anche se i reduci testimonieranno come in molti casi si fosse trattato di «volontarietà coatta» o di reclutamenti attraverso l’inganno. Si trattava di persone troppo vecchie o troppo giovani per essere aggregate alla Wehrmacht o alle Waffen-SS, ma era un’unità a scopo militare, con addestramento ed equipaggiamento non solo per compiti di sorveglianza e difesa di luoghi strategici, ma adatti alla guerra antipartigiana nelle zone dove opereranno. Le date di nascita rivelano anche come quasi tutti fossero nati sotto l’Impero asburgico, appartenessero quindi non solo al gruppo etnico tedesco ma lo fossero di nazionalità, cui bisogna aggiungere che molti di questi avevano o avrebbero presto perso la cittadinanza italiana «ricevuta» dopo l’annessione del 1919, per via della loro Opzione per il Reich.

Commemorazione – Nel cimitero militare di San Giacomo la targa in ricordo dei soldati del Bozen, inaugurata nel 1981

Il reggimento presta giuramento il 28 gennaio e sarà diviso in quattro battaglioni, ognuno formato da quattro compagnie. Le tre compagnie del terzo battaglione del Polizeiregiment «Bozen» verranno impiegate in modi diversi: a rotazione sarebbero state impiegate due compagnie, mentre la terza doveva servire come riserva. Da febbraio a marzo, la nona e la decima verranno impiegate per la sorveglianza di luoghi strategici, mentre l’undicesima avrà un compito di facciata: ufficialmente destinata ad un supplemento di addestramento, in realtà avrà un ruolo repressivo indiretto tramite la propria stessa presenza in città. Un reparto in assetto da guerra, che marcia nell’uniforme grigioverde della Wehrmacht, cantando per farsi notare più possibile. Per questo, semplificando e banalizzando a partire da un particolare vero, il Presidente del Senato La Russa ha parlato di musicisti: non erano solo visibili, con le loro divise ed armi, ma venivano sentiti cantare durante le proprie marce, un modo per rendere più evidente possibile la propria presenza, la presenza dell’occupante.

Venivano su cantando, nella loro lingua che non era più quella di Goethe, le canzoni di Hitler. Centosessanta uomini della polizia nazista, con le insegne dell’esercito nazista… Venivano su cantando, macabri e ridicoli…

– Rosario Bentivegna in “Achtung Banditen” (2004)

L’arruolamento antipartigiano – Immagini tratte da «Südtiroler in der Waffen-SS» di Thomas Casagrande

Polizeiregimente – Né poliziotti né SS, ma soldati

I corpi di polizia germanici avevano subíto una profonda mutazione con la presa del potere nazionalsocialista, con una progressiva militarizzazione in «Vorbereitung auf neue und größere Aufgaben in der Zukunft». Anche i Polizeiregimente saranno così formati a partire dalla struttura della Ordnungspolizei, sottoposti al «Höchsten SS- und Polizeiführer» in Italia Karl Wolff, simili a soldati della Wehrmacht negli armamenti, nei gradi militari e nelle uniformi grigioverdi.

Il doppio ruolo di Wolff ricalcava quello di Himmler, Reichsführer SS und Chef der deutschen Polizei: il fatto che quest’ultimo fosse contemporaneamente capo delle SS e capo della polizia, unito a motivazioni di prestigio (e propaganda interna) e un riordinamento generale delle forze tedesche, sono stati probabilmente il motivo per cui con decisione del 24 febbraio 1943 tutti i Polizeiregimente – non solo quelli sudtirolesi – verranno ridenominati SS-Polizeiregimente: per il «Bozen», già formato da mesi e in quel momento attivo in diversi scenari di guerra, il provvedimento verrà reso effettivo con un’ordinanza del 16 aprile. Si tratta però di un atto solamente formale, poco più dell’aggiunta di una sigla, perché il comando era già lo stesso, non verranno modificate le divise e se il Soldbuch diventerà a sua volta SS-, i soldati dei reggimenti non otterranno il numero di appartenenza alle SS.

Per lungo tempo, soprattutto a partire dall’ambiente diplomatico dove De Gasperi aveva tutto l’interesse a presentare i sudtirolesi come ferventi nazisti, si è parlato di feroce reparto di SS. La realtà è che la specifica compagnia attaccata in Via Rasella non era stata protagonista di crimini di guerra, ma se non le si possono attribuire particolari responsabilità, non si può neppure dare per scontata la loro innocenza. Se l’undicesima compagnia del «Bozen» viene sostanzialmente spazzata via dai GAP, le restanti unità del terzo battaglione continueranno ad essere impiegate a Roma e poi nel nord Italia in funzione antipartigiana; ancora, i due altri battaglioni saranno da subito attivi nella repressione della Resistenza italiana e slovena in OZAV e OZAK, partecipando anche all’incendio di villaggi, rastrellamenti e stragi come i più famosi episodi della Valle del Biois nell’agosto 1944 o l’eccidio di Bassano del Grappa del 26 settembre 1944. Il «Bozen» era un’unità armata e addestrata per compiti in cui altre unità si macchieranno di crimini, per cui risulta difficile che proprio quel reparto potesse sottrarsi dal meccanismo di morte del nazionalsocialismo.

La confusione sulle vittime

Il reparto attaccato in Via Rasella era quindi un’unità da combattimento, un legittimo obiettivo di guerra attaccato nelle modalità tipiche della resistenza urbana, che non poteva affrontare frontalmente l’occupante nazista ed il suo alleato fascista ma non aveva rinunciato ad agire. Il «Bozen» avrebbe potuto essere attaccato prima o successivamente, con modalità simili o senza alcuno spargimento di sangue: forse avrebbe avuto più o meno vittime, oppure sarebbero stati i suoi soldati ad uccidere. Se queste rimangono supposizioni è proprio grazie all’azione dei GAP romani, perché la partecipazione di quei 156 uomini alla Seconda guerra mondiale o alle politiche del regime sarebbe stata solo questione di tempo.

Rappresaglia – Soldati nazisti alla ricerca di «esseri umani» per quello che diverrà noto come Eccidio delle Fosse ardeatine (Foto: Wikipedia)

Per molto tempo si è anche parlato del «Bozen» come autore della strage, parte del plotone d’esecuzione secondo una ricostruzione circolante in ambiente diplomatico. Una versione poi letteralmente ribaltata da Umberto Gandini, che sulle pagine de «Il Giorno» intervista per primo i superstiti del «Bozen». Uno di questi, Jacob Tock, racconta che i sottufficiali volevano che fossero loro a eseguire la fucilazione, ma che non era stato possibile perché «noi sudtirolesi non siamo fatti per queste cose, non potevamo uccidere così kaltbluetig, a sangue freddo». Una versione poi riassunta da Gandini come disobbedienza esplicita del «Bozen», di cui si parlerà ancora negli anni successivi: ma fino al 1968, la mancata partecipazione del «Bozen» era stata legata alla più probabile decisione dei loro superiori, dopo che il comandante della compagnia Dobek li aveva presentati come inadatti e troppo cattolici. Un reparto almeno dimezzato, tra morti e feriti, non poteva realizzare una rappresaglia veloce ed efficiente. Una spiegazione molto più credibile di un aperto rifiuto da parte di soldati semplici, che sarebbero stati per questo puniti – se non con la morte, almeno con l’invio in reparti punitivi in quanto elementi inaffidabili.

Definire questi soldati delle «vittime», allo stesso livello di quelle delle Fosse Ardeatine, non rende giustizia alle seconde e confonde rispetto ai primi. Questo è stato per molti anni il leitmotiv della pubblicistica sudtirolese in lingua tedesca, che più volte ha parlato di «368 Opfer», ma anche della stessa propaganda dei due regimi – come da commento dello stesso Osservatore Romano, «trentadue vittime da una parte; trecentoventi persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto, dall’altra».

La disobbedienza del «Bozen» – L’articolo di Umberto Gandini pubblicato su Il Giorno del 24 marzo 1968

Un passo indietro, all’origine di tutta la polemica di questi giorni, cominciata proprio nell’anniversario delle Fosse Ardeatine per il comunicato della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La cofondatrice di Fratelli d’Italia e dal lungo curriculum di militanza studentesca nei partiti post-fascisti ha parlato di «335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani».

Innanzitutto, innocenti non lo erano né agli occhi di Herbert Kappler, l’organizzatore della strage che di fronte al tribunale spiegherà ampiamente la sua definizione di Todeskandidaten, ma neppure dei fascisti alleati, che prestano il loro aiuto per la realizzazione dell’eccidio. Non erano innocenti perché resistevano, non erano innocenti perché ebrei, non erano innocenti perché non si trattava di rispettare uno status giuridico, ma della realizzazione di una necessità: avere abbastanza persone da uccidere affinché la rappresaglia avesse effetto.

Non erano neppure tutti italiani: alcuni non avevano la cittadinanza, o non erano di nazionalità italiana. Ma soprattutto, gran parte di loro era considerata anti-italiana proprio da chi li uccise: non erano italiani perché appartenenti alla «razza ebraica» discriminata e poi ufficialmente perseguitata con le leggi razziali del 1938; non erano italiani perché chi era contro la repubblichina di Salò veniva accusato di essere contro l’Italia.

No, non vennero uccisi solo perché italiani: vennero uccisi in una cieca vendetta, interessata ad una contabilità capace di incutere terrore.

Il presente contributo è stato pubblicato su Salto.


Fonti
Il lavoro più esauriente in proposito è il Seminararbeit di Christoph von Hartungen, Werner Hanni, Klaus Menapace e Reinhold Staffler del 1980. Una versione rivista e meno completa può essere letta sulla rivista «Der Schlern» del 1981. Altri essenziali contributi in lingua tedesca sono l’articolo «Mord in Rom» di Steffen Prauser (Viertelsjahrshefte für Zeitgeschichte, 2002) e la tesi di dottorato di Joachim Staron, «Fosse Ardeatine und Marzabotto: Deutsche Kriegsverbrechen und Resistenza» (Schöningh 2002), che si concentra di più sulla rappresentazione mediatica delle due stragi in Italia e Germania. In italiano si rimanda al monumentale lavoro di Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito (Donzelli 1999).

L’autore
Lorenzo Vianini si è laureato all’Università di Vienna con una tesi dedicata all’argomento, Via Rasella in der Südtiroler Medienberichterstattung, e ha realizzato per Radio Tandem un podcast in italiano di due puntate: Via Rasella nei media sudtirolesi.

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Verherrlichung von Mussolini am CONI-Hauptsitz.

Der langjährige Sportfunktionär und heutige Staatssekretär Claudio Barbaro (FdI, früher u.a. MSI) veröffentlichte 2017 in den sozialen Medien ein Bild von sich, wie er am Hauptsitz des NOK (CONI) unter einem Wandgemälde von Luigi Montanarini stand. Dazu bemerkte er, dass das Kunstwerk für sich spreche.

Und das tut es auch: Zu sehen sind auf dem monumentalen Werk von 1928 Diktator Benito Mussolini und die Mitglieder des Großen Faschistischen Rats mit grünweißroten Flaggen auf einem Sockel, wie sie von ringsherum stehenden Sportlern und Mitgliedern der faschistischen Korporationen umjubelt werden.

Aufgrund der Tatsache, dass das damalige Posting nun wieder thematisiert wird, erfährt man also auch, dass am Hauptsitz des (auch für Südtirol zuständigen) NOK tatsächlich bis heute ein 13 Meter breites und 12 Meter hohes Gemälde den sogenannten Ehrensaal ziert, das den vielsagenden Titel Verherrlichung des Faschismus’ (Apoteosi del fascismo) trägt. Seit dem Einmarsch der Alliierten 1944 war das Werk für 53 Jahre verhüllt gewesen, bis es 1997 auf Anordnung des staatlichen Denkmalamts restauriert und wieder sichtbar gemacht wurde. Seitdem tagt der Nationalrat des NOK, dessen Hauptsitz sich im Gebäude der ehemaligen Männlichen Faschistischen Akademie für Leibeserziehung am Foro Italico befindet, regelmäßig im Beisein eines Diktators. Völlig normal in einem demokratischen Land.

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3 ‹4 ‹5 ‹6 ‹7

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