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Open to Strafalcioni.

Il Sudtirolo è stato oggetto di un «lungo processo di germanizzazione» subito dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente. Il suo territorio «è stato incluso nella Contea del Tirolo per oltre 5 secoli per poi passare in gran parte sotto il Regno di Baviera tra il 1806 e il 1918», e quindi durante la prima guerra mondiale, alla fine della quale «torna» in mano all’Italia, il Sudtirolo faceva parte… della Baviera.

Sono solo alcune delle novità — e falsità — del tutto «meravigliose» che apprendiamo navigando su Italia.it, ancora una volta al centro di uno scandalo per via della campagna Open to meraviglia, presentata pochi giorni fa dal governo «della Nazione» che tra l’altro vorrebbe vietare gli inglesismi (di cui anche il video di presentazione, ufficialmente ritirato, è zeppo); e più concretamente dalla ministra del turismo Daniela Santanchè (FdI), orgogliosamente fascista, il cui dicastero è anche riuscito a farsi sfuggire il relativo dominio internet.

La sezione in lingua tedesca del sito intanto è stata completamente eliminata, in fretta e furia, per via delle imbarazzanti traduzioni dei nomi delle città: Garderobe per Camerino, Stillstand per Fermo o Kokosnussschneider per Tagliacozzo. E quindi uno dei mercati esteri più importanti è rimasto orfano di una versione nella sua lingua (tuttavia manca anche una versione in francese).

Ma non è da meno tutto il resto.

Per quanto riguarda il Sudtirolo, ad esempio, apprendiamo che nella «meravigliosa Val Gardena si susseguono gli splendidi borghi» di Kastelruth, Seis, Völs e Tiers (che lì cercheremo invano), mentre per sciare il «punto di riferimento deve essere il Dolomiti Superski con oltre 1.200 chilometri di piste suddivise in 12 diverse zone sciistiche» (ma sono 15), inclusa «l’area di Plan de Corones con 8 impianti da provare» (ma sono 32).

Per chi è in cerca «di luoghi insoliti» e «lontani dalle rotte più turistiche» il sito consiglia addirittura «l’area escursionistica di Obereggen» con «oltre 48 chilometri di piste», mentre «per una pausa dallo sci» ci si può recare ai Giardini di Castel Trauttmansdorff — che da metà novembre a fine marzo sono chiusi.

Sorprendente anche la famosa «regione dolomitica Tre Zinnen».

La gastronomia

Impossibile resistere davanti ai prodotti tipici del Sudtirolo: «Dai deliziosi brezel ai gustosi bratwurst, la cucina del territorio presenta ancora oggi le influenze» del «dominio germanico».

Invece «se amate il formaggio dovete assaggiare il Fontal», questa tipica specialità sudtirolese.

Città e borghi

Scopriamo poi che Bolzano è il capoluogo della regione Trentino-Sudtirolo (ruolo che però ufficialmente spetta a Trento), e che lo scontro tra i vescovi di Trento e i conti di Tirolo nel medioevo vide «la sua fine con l’arrivo degli Asburgo» — e dove arrivarono? — «in Italia». Infine, «merita una visita» anche l’immancabile «Monumento alla Vittoria, una controversa opera marmorea» voluta «da Mussolini dopo l’occupazione italiana» e «in ricordo della vittoria contro l’impero austro ungarico».

A Meran torniamo ai Giardini di Castel Trauttmansdorff, con «ben 80 varietà di piante», pochine. Mentre nella Torre della Memoria di Castel Tirolo troviamo «una mostra permanente sulla storia dell’Alto Adige e del Sud Tirolo». Zone contigue.

Nel capoluogo pusterese, Bruneck, troviamo «il lanificio Muessmer». E per quanto invece riguarda Sterzing, «non tutti sanno» che la cittadina «ha origini romane», e infatti è una balla inventata da Ettore Tolomei. In cambio in questo luogo della Valle Isarco (Wipptal) si trova: «l’ottimo speck trentino».

Sapore amaro

Insomma, anche senza navigare tutte le pagine dedicate al Sudtirolo, ci si accorge presto che sono un’accozzaglia di strafalcioni più o meno grossolani. Nel caso specifico poi hanno anche il «pregio» di aumentare la confusione e propagare la disinformazione sulla storia di questa terra e quindi sulle rivendicazioni autonomistiche — sulle quali in Italia già l’ignoranza regna sovrana.

Se da un lato non sono tra quelli che pensano che il Sudtirolo debba continuamente spiegarsi e giustificarsi, dall’altro trovo vergognoso (e al contempo illuminante) che nel 21° secolo un ente pubblico come l’Enit continui a diffondere falsità storiche «colonialistiche» di questa entità.

Sarà forse più facile che anche i sudtirolesi prima o poi accettino la mistificazione secondo cui siamo tutti italiani, inconsapevolmente — o brutalmente — germanizzati, che devono solo tornare alle loro origini culturali.

Open to Masochismo

Il sito opentomeraviglia.it, il cui dominio il ministero s’è fatto sfuggire

Più in generale, personalmente trovo che la campagna con la Venere influencer (attenti all’inglesismo) sarebbe di un’oscenità e «bruttezza» imbarazzante anche senza gli incredibili errori nei contenuti, che ne sono solo il logico completamento.

Che poi gli autori — l’agenzia Armando Testa — abbiano anche il coraggio di sfoderare il sempiterno «purché se ne parli» è veramente il massimo. Qui non solo si sperperano soldi pubblici, ma lo si fa abusando della fiducia di chi si affida alle informazioni che trova su un sito pubblico; e se anche si contribuisce a diffondere «il marchio» (ma l’Italia non dovrebbe essere un «marchio» bisognoso di diffusione) al contempo si conferma, anche e soprattutto all’estero, il giudizio sugli italiani casinisti, caotici e incapaci.

Per chi da cittadino, accademico, professionista o azienda all’estero — volente o nolente — viene identificato con questo paese è l’ennesimo schiaffo alla reputazione.

Vedi anche ‹1 ‹2

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Pro Femina in Südtirol.

Laut UT24 hat der deutsche Beratungsverein für »Schwangere in Not« Pro Femina seinen Hauptsitz von Heidelberg nach Bozen verlegt. In Deutschland seien die Büros der Organisation des Öfteren von Linksextremistinnen attackiert, »Scheiben eingeschlagen, Hundekot in den Briefkasten gesetzt und weiteres Ungemach veranstaltet« worden. Als dann eine Regierungspartei in Berlin den habe »verbieten« wollen, sei der Hauptsitz nach Südtirol verlegt worden.

Tatsächlich gibt Pro Femina im Impressum eine Anschrift in der Altstadt von Bozen sowie eine Eintragungsnummer der Südtiroler Handelskammer an. Das Spendenkonto liegt bei der hiesigen Sparkasse.

Worum geht es? Das fundamental christliche »Sozialunternehmen« mit beschränkter Haftung, das auch unter dem Aktionsnamen 1000plus auftritt, ist seit Jahren darauf spezialisiert, Frauen »im Schwangerschaftskonflikt« vor allem online und telefonisch zu »beraten«, und zwar so, dass ein Schwangerschaftsabbruch möglichst abgewendet werden kann. Der Fokus soll dabei folgerichtig nicht auf dem Wohl der Beratenen und schon gar nicht auf einer selbstbestimmten Entscheidung liegen, sondern auf dem sogenannten »Lebensschutz«1gemeint ist das ungeborene Leben und nicht jenes der Schwangeren — wofür mit zulässigen, aber auch mit unlauteren Methoden am Rande der Legalität gearbeitet wird.

Das fängt schon beim Namen an: der sei laut Kritikerinnen so gewählt, dass er leicht mit dem etablierten Beratungsangebot von Pro Familia verwechselt werden kann. Das Original sah sich mehrfach dazu veranlasst, vor Verwechslungen zu warnen. Denn im Unterschied zu Pro Familia berät Pro Femina nicht ergebnisoffen und stellt auch keine — in Deutschland für einen Schwangerschaftsabbruch nötigen — Beratungsscheine aus. Aufgrund dieser Tatsache, auf die meist nur am Rande (bzw. im Kleingedruckten) hingewiesen wird, verlieren Betroffene oft wertvolle Zeit und können so die gesetzliche Frist für eine Abtreibung verpassen. Zudem sollen Frauen bei der Beratung übereinstimmenden Berichten zufolge psychisch unter Druck gesetzt, manipuliert und bewusst getäuscht werden, damit sie einen gewollten Abbruch nicht durchführen lassen. Sogar Geld werde ihnen angeboten, wenn sie die Schwangerschaft fortsetzen.

Bei weitem nicht nur Linksextreme sehen das Gebaren von Pro Femina äußerst kritisch. Die SPD hatte sich für eine Schließung der Berliner Büros starkgemacht. Sowohl Hessen als auch das nicht unter Linksextremismusverdacht stehende Bayern prüfen, dem Verein zumindest die Verwendung des Begriffs »Schwangerenkonfliktberatung« zu untersagen; und auch das (ehemalige) Heimatbundesland von Pro Femina, Baden-Württemberg, überlegt rechtliche Schritte.

Sogar katholische Bistümer wie jene von Augsburg, Speyer oder Freiburg i. B. haben Aktionen der umstrittenen »Lebensschützerinnen« verboten — und ihre Pfarreien vor einer Zusammenarbeit mit der Organisation gewarnt.

Der Pro-Femina-Vorsitzende Kristijan Aufiero wird mit der irreführenden und polarisierenden Aussage zitiert:

Die Massenabtreibung in Deutschland ist ein Phänomen der massenhaft unterlassenen Hilfeleistung.

Jetzt versucht er sein Glück in Südtirol — im politischen Asyl, wie es auf UT24 heißt.

Siehe auch 1›

  • 1
    gemeint ist das ungeborene Leben und nicht jenes der Schwangeren
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Große Gefühle im Kampf um den eigenen Staat.
Veranstaltungshinweis

Heute und morgen findet am Sitz der Fakultät für Bildungswissenschaften der FUB in Brixen eine internationale Tagung zum Thema

»Große Gefühle« im Kampf um den »eigenen Staat« – Emotionsgeschichtliche Perspektiven auf regionale Unabhängigkeitsbewegungen

statt. Es handelt sich um eine gemeinsame Veranstaltung des Kompetenzzentrums für Regionalgeschichte der Freien Universität Bozen (Prof. Oswald Überegger) und des Instituts für Geschichtswissenschaften der Humboldt Universität Berlin (Prof. Birgit Aschmann).

Programm:

Freitag, 11. November 2022

9.00-10.45 Uhr

Grußworte und Eröffnung: Birgit Aschmann (Berlin) und Oswald Überegger (Bozen)

Panel 1:

    • Lina Schröder (Würzburg/Salzburg)
      David gegen Goliath?
      Wie lassen sich »sieben Länder« zu einem Volk vereinigen?
    • Tim Buchen (Dresden)
      Separatismus und Karneval
      Oberschlesiche und tarnobrzeger Autonomiebestrebungen zwischen imperialem Kollaps und polnischem Nationalstaat

Diskussion

10.45-11.15 Uhr Kaffeepause

11.15-12.45 Uhr

Panel 2:

    • Christoph Jahr (Berlin)
      »Los von Berlin« oder »Marsch auf Berlin?«
      Überlegungen zur Emotionsgeschichte bayerischen Sonderbewusstseins 1918-1923
    • Martin Platt (Bonn)
      »Du bes e Jeföhl«?
      Emotionale Medialisierung rheinischer Separationsbemühungen in der Berliner Tagespresse 1918/19

Diskussion

12.45-14.00 Uhr Mittagspause

14.00-15.30 Uhr

Panel 3:

    • Ludger Mees (Bilbao)
      Nation, Emotion, Religion: eine baskische Spurensuche
    • Birgit Aschmann / Viviane Tecklenburg (Berlin)
      Krise und Clash of Emotions
      Der erste Vorstoß zu einem Autonomiestatut in Katalonien 1918

Diskussion

15.30-16.00 Uhr Kaffeepause

16.00-17.30 Uhr

Panel 4:

    • Giorgia Bulli (Firenze)
      Economic or Cultural Homeland?
      The Construction of the Idea of Padania
    • Jona van Laak (München)
      #Scotland is now.
      Die Wirkungen medialen Campaignings bei Sezessionsbestrebungen

Diskussion

17.45 Uhr

Buchpräsentation:
Christoph Cornelißen (Frankfurt a. M./Trento)
Europa im 20. Jahrhundert
(Neue Fischer Weltgeschichte, Band 7)
Frankfurt a. M. 2020.

Samstag, 12. November 2022

9.00-10.30 Uhr

Panel 5:

    • Hans Heiss (Brixen)
      »Kontrolle über alles«
      Gründe und Strategien emotionaler De-Eskalierung in der Politik Südtirols ab 1945
    • Ivan Stecher (Innsbruck)
      »Wohl ist die Welt so groß und weit«
      Die Rolle des Deutschnationalismus als Emotionalisierungsinstrument der sezessionistischen Bewegungen in Südtirol am Beispiel Karl Felderer

Diskussion

10.30-11.00 Uhr Kaffeepause

10.00-12.30 Uhr

Panel 6:

    • Aniket De (Cambridge, MA)
      The Language of Emotion and the Struggle for Bangladesh, 1965-1971
    • Martin Müller (Innsbruck)
      Der Mythos Alexanders des Großen.
      Die Bezugnahme auf das »eigene« antike Erbe als Legitimation historischer Kontinuität am Beispiel der Auseinandersetzung zwischen Griechenland und Mazedonien

Diskussion

Schlussworte

Offizieller Flyer

Die Tagung findet im Hörsaal A1.50 statt und ist öffentlich.

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Kennzeichen: Rechtsunsicherheit.

Ein Freund von mir hat in Bayern einen Gebrauchtwagen gekauft und lässt ihn nun in Südtirol zu. Er hat das Fahrzeug selbst beim Autohaus abgeholt und mit einem deutschen Zollkennzeichen (das mit dem roten Rand und Datumsfeld) hierhergebracht.

Da er mir davon erzählt hat, dass er hier mit dem deutschen, auf ihn lautenden Kennzeichen so lange fahren wird, bis das Südtiroler Nummernschild da ist, habe ich ihm empfohlen, sich sicherheitshalber noch einmal bei der Agentur zu informieren, die die Zulassung hierzulande für ihn abwickelt.

Die Auskunft war dabei landestypisch: Genau wisse man es nicht, denn man habe sich sowohl bei der italienischen Straßenpolizei als auch bei den Carabinieri informiert und zwei völlig gegensätzliche Informationen erhalten. Während die Polizei der Agentur gesagt habe, dass mit dem Kennzeichen »problemlos« gefahren werden dürfe, insbesondere wenn nachweisbar ist, dass die sogenannte »Nationalisierung« bereits eingeleitet wurde, hätten die Carabinieri gesagt, das dürfe man auf keinen Fall.

Da seit Salvinis tollem Dekret, das der EuGH bereits als vertragswidrig eingestuft hat, bei Zuwiderhandlung möglicherweise sogar die Beschlagnahme des Fahrzeugs droht, lässt mein Freund sein Auto — auf das er privat und beruflich dringend angewiesen wäre und für das er mit dem Zollkennzeichen auch KfZ-Steuer und Versicherung bezahlt hat — nun lieber stehen. Und zwar drei Wochen lang, denn so lange dauert laut der Autoagentur ungefähr das Zulassungsverfahren.

Hier geht es aber weniger um Autos und um die Mobilität eines Einzelnen als um die miserable Rechtssicherheit in diesem Staat, an die wir uns zwar weitgehend gewöhnt haben, die aber aus Bürgerinnen Untertaninnen und Bittstellerinnen macht.

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Gli scarsi risultati della scuola bilingue.

Oggi su Salto è apparso un editoriale in cui il caporedattore Fabio Gobbato cerca di riassumere e analizzare le ragioni del fallimento della scuola bilingue — ovvero della bilinguizzazione della scuola italiana — in Sudtirolo negli ultimi anni. Lo fa, anche lui, dati Invalsi alla mano, che certificano risultati scarsi in italiano e matematica.

[È] un dato di fatto che da oltre un decennio in Alto Adige-Südtirol, per rispondere alla fame di bilinguismo dei centri urbani, la scuola italiana abbia nobilmente reagito cercando una soluzione, prima con Luisa Gnecchi, l’iniziatrice, poi con Christian Tommasini, l’attuatore, e ora con Giuliano Vettorato, che sta proseguendo praticamente nella stessa direzione dei predecessori del PD.

— Fabio Gobbato

Reagire per soddisfare le richieste della popolazione a volte può non bastare. Dalla sua prima introduzione in Québec negli anni ’70 del secolo scorso, l’inventore dell’immersione linguistica, il professor Wallace Lambert della rinomata università McGill, aveva sempre sottolineato l’importanza fondamentale di un continuo accompagnamento scientifico di ogni singolo progetto, con una preparazione meticolosa delle insegnanti e valutazioni puntuali e regolari lungo tutto il percorso.

Allertava, inoltre, del pericolo di un bilinguismo sottrattivo, che nuoce alla prima lingua, in luogo del bilinguismo additivo, che funge da moltiplicatore.

In Sudtirolo invece l’immersione (o CLIL, che dir si voglia) è quasi sempre stata un’improvvisazione, sia nelle scuole italiane che in quelle tedesche.

Infatti anche Gobbato fa notare che

i genitori che in quegli anni avevano figli in età pre-scolare sono andati in ansia sommergendo di richieste le scuole e la Soprintendenza, la domanda è decuplicata, gli insegnanti CLIL, però, non c’erano e ci si è inventati l’insegnamento in compresenza (che raddoppia semplicemente i costi di un’ora tenuta da un insegnante linguisticamente preparato/a), si sono aperte le sezioni bilingui anche ai bimbi non provenienti dal Kindergarten, l’ansia “sociale” è aumentata ancora a dismisura, si sono create le sezioni potenziate, gli insegnanti a quel punto erano ancora meno e si è reagito come si poteva, prendendo giovanissimi neo laureati o anche non laureati

— Fabio Gobbato

Insomma, si è continuato a correre dietro alle richieste dei genitori a scapito del rigore e di una programmazione seria, per pura volontà di accontentare tutti.

A un certo punto però anche Gobbato si rende conto che a Bolzano quel che manca, rispetto alla Scuola Da Vinci di Monaco (la cui direttrice ha recentemente intervistato), è imprimis il contesto linguistico (1›):

In Baviera fra le mura domestiche parlano sì tutti in italiano, ma poi i ragazzi sono in qualche modo costretti a frequentare associazioni sportive tedesche, vanno agli scout con coetanei tedeschi, in cortile hanno amici tedeschi, guardano la Tv germanica, vanno al cinema a vedere film in tedesco, ascoltano musica germanica. In un concetto: assorbono gradualmente la lingua e la cultura germaniche, mentre i ragazzini altoatesini si fermano generalmente alle 9-12 ore in tedesco e per il resto vivono in un ambito integralmente italiano.

— Fabio Gobbato

E questo è un bel passo avanti, perché mentre qui su — modestamente — da molti anni facciamo notare che l’immersione ha una componente individuale e una sociale, questo fatto in Sudtirolo normalmente è sempre stato «dimenticato».

Tra l’altro serve anche a far comprendere perché possiamo certamente fare paragoni con le scuole bilingui di Innsbruck e Monaco, ma in realtà con la situazione del Sudtirolo c’entrano poco.

Tuttavia le conseguenze che Gobbato trae dalle sue constatazioni sono a mio avviso almeno parzialmente sbagliate: in più di un’occasione accenna alla reciprocità con le scuole tedesche. Certo, se le scuole italiane potessero semplicemente attingere al personale delle scuole tedesche, alcuni problemi delle prime si potrebbero risolvere — ma a che prezzo? Il rischio sarebbe quello di un semplice travaso di insegnanti, che già mancano da tutte le parti, finendo per danneggiare anche le scuole tedesche senza peraltro risolvere i problemi degli istituti italiani.

Ancora una volta allora sarebbe una scorciatoia che non porta al risultato auspicato.

Sulla base delle esperienze che si osservano in altre zone plurilingui con presenza di minoranze nazionali (Québec, Catalogna o Finlandia), invece, se davvero si volesse dar forza alla lingua tedesca specialmente a Bolzano, si dovrebbe investire prima di tutto sul contesto linguistico, cosa che invece in Sudtirolo viene puntualmente ignorata e derisa o addirittura osteggiata. Vi rientrano banalità come etichette o bugiardini dei medicinali bilingui, diritto dei consumatori a venir serviti nella lingua che preferiscono o misure vere e proprie di affirmative action.

Ma soprattutto penso che le varie sperimentazioni CLIL andrebbero sostituite con una full immersion tedesca con poche ore di italiano, simile alla french immersion in Canada o alle scuole pubbliche catalane. In soldoni: per compensare ciò che a Bolzano manca, rispetto a Innsbruck e Monaco, chi vuole davvero imparare il tedesco dovrebbe frequentare una scuola tedesca o, forse, una sezione tedesca per non madrelingua. Penso che per fare una politica linguistica seria si dovrebbero eliminare almeno alcune scuole italiane a Bolzano, sostituendole con scuole tedesche.

L’odierna «pioggia» (o «tempesta tropicale») serve a poco o nulla se, come scrive Gobbato, i ragazzi stanno seduti in classe e non capiscono niente.

Chi ne ha la possibilità provi a parlare informalmente con i ragazzi delle medie e scoprirà che molti di loro se la ridono dicendo che capiscono pochissimo durante le lezioni veicolari, ancora in terza!

— Fabio Gobbato

Mi verrebbe da dire che sono troppe per lo scarso risultato e troppo poche per imparare davvero la lingua in un contesto ormai largamente monolingue italiano come quello di Bolzano.

E’ davvero poco consolatorio scoprire nella vita reale che ormai gli studenti italiani arrivano in quinta superiore con un tedesco migliore rispetto all’italiano della gran parte dei ragazzi di lingua tedesca che non vivono nelle città (per quelli delle città resta in gran parte valido il luogo comune degli Anni Ottanta che “i tedeschi sanno molto meglio l’italiano di quanto gli italiani sappiano il tedesco”).

— Fabio Gobbato

Non so se sia vero, non conosco i dati, ma anche se così fosse il «problema» è che per chi è di lingua tedesca, lingua minorizzata, spesso il percorso di bilinguizzazione alla fine della scuola è appena agli inizi, sul posto di lavoro, a contatto con i colleghi, i clienti e le migliaia di turisti italofoni. Tutte le statistiche paiono confermarlo, anche se il risultato non sarà certo perfetto.

Mentre invece per molti sudtirolesi di lingua italiana quello scolastico è il punto d’arrivo, ché nella vita reale non saranno quasi mai costretti a esprimersi nell’altra lingua.

Quindi, lo ribadisco, non penso che la soluzione possa essere la reciprocità ma, anzi, modelli differenziati per esigenze e contesti linguistici diversi. Certo, rimane il grande problema del personale, che bisognerebbe risolvere gradualmente facendo: formazione. Le formule magiche non esistono.

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Autorinnen und Gastbeiträge

Wer war Stepan Bandera?

Sicher kein Idol für eine demokratische und unabhängige Ukraine.

Der 1909 im ostgalizischen Dorf Staryj Uhryniw (heute Iwano-Fran­kiw­sk/U­kraine) geborene Bandera trat 1929 in die Organisation Ukrainischer Nationalisten (OUN) ein, war 1932 eine der versiertesten Propagandisten und koordinierte die Terroranschläge im polnischen Ostgalizien. Den Terror sah Bandera als Teil einer »per­ma­nen­ten Revo­lu­tion«, die später in die »natio­nale Revo­lu­tion« münden sollte. Ziel: Die Errich­tung eines ukrai­ni­schen Staates.

Zu den spektakulärsten Anschlägen der Bandera-Terroristen zählte die Ermor­dung des pol­ni­schen Innen­mi­nis­ters Bro­nisław Pier­acki 1934 in Warschau. In zwei Prozessen 1935 und 1936 wurde Bandera zum Tode verurteilt, das Urteil aber letztendlich in eine lebenslange Haftstrafe umgewandelt.

Bandera nutzte die Prozesse gekonnt für seine Propaganda, weigerte sich, Polnisch zu sprechen, verwendete nur seine ukrainische Muttersprache. Die Tumulte im Gericht rückten Bandera ins mediale Interesse, er wurde zum Sprachrohr der ukrainischen Nationalisten.

Aufgrund des Hitler-Stalin-Pakts besetzte die Rote Armee die Westukraine, die OUN-Nationalisten und ihr bewaffneter Arm, die UPA, leisteten dagegen Widerstand. Nach dem Angriff des Dritten Reichs auf die Sowjetunion rückte 1941 die deutsche Wehrmacht in die Ukraine ein. Die OUN bot sich als Bündnispartner an. Viele OUN-Mitglieder beteiligten sich an den Massakern der Wehrmacht und der Sonderkommandos an den jüdischen UkrainerInnern.

Die ukrainischen Nationalisten begrüßten den Einmarsch der Wehrmacht, empfanden sie als Verbündete gegen die Sowjets und als Partner bei der Gründung des ukrainischen Staates. Die OUN rief am 30. Juni 1941 in Lwiw, im ehemaligen habsburgischen Lemberg, den unabhängigen ukrainischen Staat aus. Nicht mit dabei war Stepan Bandera, den die Gestapo verhaftet hatte. Nazideutschland unterband die Staatsgründung, die Nazis hatten mit der Ukraine anderes vor, die Ausplünderung und einen erbarmungslosen Krieg gegen die »slawischen Untermenschen«.

Für viele WestukrainerInnen galt die Proklamation als ein Akt der nationalen Selbstbehauptung, der Erneuerung ukrainischer Staatlichkeit. Verdrängt wurde erfolgreich der von Bandera gepflegte Totalitarismus und seine bedingungslose Nähe zu Nazideutschland. Bandera wollte letztendlich, schreibt Historiker Wilfried Jilge, nur einen faschis­ti­schen Satel­li­ten­staat, der der kroa­ti­schen Usta­scha weit näher­kam als einer wirk­li­chen Unabhängigkeit.

Bandera nutzte seine Unterwürfigkeit wenig, er kam ins KZ Sachsenhausen, seine Brüder nach Auschwitz, wo sie ermordet wurden — wie andere OUN-Aktivisten auch. Sie waren der alles durchdringenden nationalsozialistischen Kolonialisierung der Ukraine im Weg. Im Untergrund organisierten die abgetauchten OUN-Militanten 1942/43 die Ukrainische Aufstandsarmee UPA, in die auch ukrainische Hilfspolizisten eintraten, die sich an deutschen Massenmorden an Juden beteiligt hatten.

Nachdem die sowjetische Armee die gesamte Ukraine wieder unter ihre Kontrolle bekommen hatte, ließen die Nazibehörden Bandera frei und suchten wieder eine Zusammenarbeit mit den ukrainischen Nationalisten. Stepan Bandera gründete den Ukrainischen Nationalkongress, den der NS-Staat als legitimen Vertreter der ukrainischen Nation anerkannte. Die OUN und die UPA schienen sich aber von Bandera entfernt zu haben.

Die UPA bekämpfte die deutsche Zivilverwaltung, die Sicherheitspolizei, den SD. UPA-Partisanen versuchten, ZwangsarbeiterInnen zu befreien. Die ukrainische Untergrundarmee führte einen Zweifrontenkrieg, gegen die Rote Armee und gegen die NS-Besatzungsbehörden. Nach der Niederlage des Dritten Reichs hofften die ukrainischen Nationalisten auf westliche Bündnispartner im Kampf gegen die Sowjetunion.

In der westlichen Ukraine hielt der UPA-Widerstand gegen die sowjetischen Besatzer bis 1949 an, bis in die 1950er Jahre gab es antisowjetischen Aktivitäten. Gegen die hochgerüstete und siegreiche Rote Armee sowie gegen die sowjetischen Sicherheitskräfte hatte der ukrainische Widerstand aber keine Chance, das Land war ausgeblutet. Bandera versuchte noch 1945 in Wien, eine OUN-Exilorganisation zu gründen, die wegen interner Auseinandersetzungen in der Bedeutungslosigkeit verschwand. Bandera setzte sich nach Bayern ab, wo er 1959 von einem KGB-Agenten ermordet wurde.

Der sowjetische Propagandakrieg gegen Bandera, gegen OUN und UPA ging weiter und wurde auch von der ukrainischen Sowjetrepublik sorgfältig gepflegt. Im Visier waren besonders in der Westukraine AutorInnen und BürgerrechtlerInnen, allesamt als bürgerliche Nationalisten verunglimpft. Erben von Bandera, gifteten die Sowjetbehörden.

Erst der Zusammenbruch der totalitären Sowjetunion ermöglichte 1991 den ukrainischen Frühling. Bei einem Referendum stimmte die Ukraine fast geschlossen für die staatliche Unabhängigkeit. In einer gemeinsamen Erklärung 2014 wandten sich die ehemaligen Präsidenten Krawtschuk, Kutschma und Juschtschenko an den russischen Präsidenten Putin, seine »aggressive Außenpolitik« gegenüber der Ukraine aufzugeben.

Ausgerechnet der demokratische Hoffnungsträger Juschtschenko erklärte Stepan Bandera ohne Not zum Nationalhelden. Bandera und seine Proklamation einer unabhängigen Ukraine — gerichtet gegen die Nazis und die Sowjets — galt als Richtschnur des politischen Handelns der jungen selbständigen ukrainischen Republik. Offensichtlich gaben die Versuche einer staatlichen Eigenständigkeit im Ersten Weltkrieg nichts her, nicht die proklamierte ukrainische Sowjetrepublik 1917, nicht der 1918 vom zaristischen General Pawlo Skoropadsky — mit Unterstützung Deutschlands und Österreich-Ungarns — gegründete ukrainische Staat, nicht die 1918 entstandene Westukrainische Volksrepublik und auch nicht die anarchistische Bauernföderation von Nestor Machno in der Zentralukraine. Gegen diese ging die Rote Armee mit besonderer Brutalität vor. Mehr als eine Million Machno-Anhänger metzelten die Rotgardisten nieder.

Als eine Ironie der Geschichte beschreibt die Historikerin Franziska Davies, dass ausgerechnet die Sowjetmacht mit der Gründung der ukrainischen SSR jene Grenzen zog, die Russland heute mit seinem Krieg radikal verändert. Die Sowjets setzten damals letztendlich den Traum von Bandera in die Realität um.

Für den polnischen Historiker Grzegorz Rossoliński-Liebe eignet sich Bandera trotzdem nicht als Vater der ukrainischen Selbständigkeit. Bandera war Faschist, strebte einen faschistischen Satellitenstaat an, der ethnisch homogen war und deshalb von Nicht-UkrainerInnen »gesäubert« werden musste. Für die Umsetzung dieses Staatskonzepts war Bandera verantwortlich und somit auch für die damit zusammenhängenden Verbrechen. Grzegorz Rossoliński-Liebe arbeitete besonders die UPA-Verbrechen gegen die polnische Bevölkerung in Galizien auf. Die ehemals vorherrschende gegenseitige Ablehnung hat eine Vorgeschichte.

Die polnische Elite des habsburgischen Galiziens unterdrückte die ukrainische Mehrheitsbevölkerung auf vielfältige Weise. Zwischen 1918 und 1919 führten die nach dem Zusammenbruch des Zaren- und des Habsburgerreiches entstandene polnische und ukrainische Republik Krieg um Ostgalizien. Die polnischen Milizen verteidigten erfolgreich Lemberg gegen die ukrainische Armee, General Pilsudski ließ massenhaft Ukrainer internieren, besonders Angehörige der Intelligenzija und nationalbewusste Ukrainer. Bauern wurden ausgepeitscht und Dörfer niedergebrannt.

Die polnische Armee ging nicht nur repressiv gegen die ukrainische Bevölkerung vor, im Visier waren auch die ukrainischen Juden. Ihnen warf die polnische Armee vor, die ukrainische Staatsgründung zu unterstützen. Das östliche Galizien wird nach dem Ende des Ersten Weltkrieges auf der Pariser Friedenskonferenz Polen zugeschlagen.

Die nationalen Bruchstellen in dieser ethnisch Mix-Region blieben nicht folgenlos. Die Warschauer Historikerin Bogumila Berdychowksa widmete ihre Recherche der vergessenen Geschichte der ukrainischen Bevölkerung in Polen. Eine Geschichte voller Tabus.

Polen verdrängte lange seine Kriegsverbrechen an der ukrainischen Zivilbevölkerung im polnisch-ukrainischen Krieg 1944-1947 und die Massenumsiedlung von 150.000 UkrainerInnen aus Südost-Polen in die polnisch gewordenen ehemaligen deutschen Ostprovinzen zwischen Masuren und Oberschlesien.

Dem ging ein sogenannter Bevölkerungsaustausch zwischen der Volksrepublik Polen und der ukrainischen Sowjetrepublik voraus. Aus dem ehemaligen Galizien, der Westukraine, wurden auch unter Zwang mehr als 800.000 Polen »umgesiedelt«, aus Polen eine halbe Million UkrainerInnern. Mehr als 1,7 Millionen Menschen mussten 1947 die polnischen Ostgebiete verlassen, die Teil der weißrussischen Sowjetrepublik wurden.

Ethnische Säuberungen, vorexerziert zwischen 1939 und 1940 von Nazideutschland und der Sowjetunion im Rahmen des Hitler-Stalin-Pakts.

Trotz des Völkermordes Nazideutschlands an der polnischen Nation war die Vertreibung der Ostpreußen, der Pommern und der Schlesier keineswegs eine humanitäre Aktion. Die Vertreibung, die von den Alliierten als Aussiedelung beschönigt wurde, war nichts anderes als ein Verbrechen.

Angesichts der Geschichte in den »bloodlands« — um den US-amerikanischen Historiker Timothy Synder zu zitieren — ist der ukrainische Faschist Stepan Bandera nicht mehr als eine blutige historische Fußnote. Er eignet sich aber zweifelsohne nicht, Pate einer unabhängigen demokratischen Ukraine zu sein.

Der ehemalige ukrainische Botschafter in Berlin, Andrij Melnik, ist mit seinen Verharmlosungen eines Faschisten nicht allein.

Der ehemalige italienische Ministerpräsident Silvio Berlusconi lobte den faschistischen »Duce«, Mussolini, er sei der wichtigste italienische Staatsmann gewesen. Faschistische Hierarchen legten im Nachkriegsitalien steile politische Karrieren hin, wie der Mitautor der faschistischen Rassengesetze, Amintore Fanfani, als christdemokratischer Ministerpräsident. Laut Umfragen würden mehr als 23 Prozent der ItalienerInnen die faschistischen Enkel von den Fratelli d’Italia wählen.

Bei den Präsidentschafts- und Parlamentswahlen in Frankreich konnte die rechtsradikale Marine Le Pen ihre Wählerbasis beträchtlich ausbauen.

In Spanien gründeten ehemalige Mitstreiter des faschistischen Generals Franco nach seinem Tod die rechtskonservative spanische Volkspartei PP. Aufarbeitung der faschistischen Vergangenheit? Fehlanzeige. Im Gegenteil. Die neuen spanischen Faschisten von der Vox-Partei bekennen sich ungeniert zu General Franco.

Nicht von ungefähr warnte die Historikerin Franziska Davies die deutsche Öffentlichkeit, mit dem Finger auf die angebliche ukrainische Verherrlichung des Faschisten Bandera zu zeigen.

Die Aufarbeitung der Nazivergangenheit in Deutschland begann auch erst in den frühen 1970er Jahren. Der erste Bundeskanzler, Konrad Adenauer (CDU), hatte sich noch den Verwaltungsjuristen Hans Globke, Mittverfasser der Nürnberger Rassengesetze, als Chef des Bundeskanzleramtes ins Kabinett.

Der naziverseuchte Justizapparat bremste lange den Generalstaatsanwalt von Hessen, Fritz Bauer, und seine Ermittlungen gegen die Täter im Vernichtungslager Auschwitz aus. Nazijuristen machten in der deutschen Justiz ungehindert Karriere. Der NS-Marinerichter Hans Filbinger von der CDU wurde Ministerpräsident in Baden-Württemberg. Im Apparat des deutschen Außenministeriums saßen lange Zeit unbehelligt Mitarbeiter und Diplomaten aus der NS-Zeit.

Bandera eignet sich zweifelsohne nicht als Idol ukrainischer Staatlichkeit, aber genauso wenig als Kronzeuge für eine vitalen ukrainischen Faschismus.

Serie I II III

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SLAPP-Ende für Slappende.

Kürzlich ist der sogenannte Pestizidprozess zu Ende gegangen, Schuldsprüche gab es keine. Der Landesrat für Landwirtschaft Arnold Schuler (SVP) und über 1.370 Bauern waren wegen einer satirischen Provokation (»Pestizidtirol«) mit Strafanzeigen gegen den heutigen Bundestagsabgeordneten Karl Bär (Grüne), das Münchner Umweltinstitut und den Buchautor und Aktivisten Alexander Schiebel — der schon vor einem Jahr freigesprochen wurde — vorgegangen.

Das Verfahren war ein klassischer SLAPP, eine Strategische Klage gegen öffentliche Beteiligung, die auch international für große Aufmerksamkeit und Kritik gesorgt hatte.

Und nun? Ende gut, alles gut? Keineswegs.

Das Ziel solcher Klagen ist es nicht notwendigerweise, eine Verurteilung herbeizuführen, sondern hauptsächlich, Aktivistinnen mit zeitaufwändigen Verhandlungen, hohen Prozesskosten und einem ungewissen Ausgang mürbe zu machen. So sollen die Beklagten selbst, aber auch potenzielle Nachahmerinnen eingeschüchtert und von ihrem Engagement abgebracht werden — öffentliche Beteiligung wird unattraktiv.

Dieses Ziel wurde auf Initiative eines Mitglieds der Südtiroler Landesregierung und dank einer willfährigen italienischen Justiz sehr wohl erreicht.

Die Münchner Staatsanwaltschaft hatte die Zusammenarbeit von Anfang an abgelehnt, da sie die Pestizidtirol-Kampagne klar als von der Meinungsfreiheit gedeckt ansah. Hätten es auch die Kolleginnen in Südtirol so gehandhabt, wäre der unsägliche SLAPP-Versuch tatsächlich gescheitert.

Siehe auch ‹1 ‹2

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Z: Niedersachsen gegen Kriegssymbol.

Der Innenminister von Niedersachsen, Boris Pistorius (SPD), hat angekündigt, dass das Land gegen die Verwendung des russischen Kriegssymbols »Z« hart vorgehen werde. Sein Ministerium habe die Polizeidirektionen des norddeutschen Bundeslandes angewiesen, genau zu beobachten, ob jemand das »Z« öffentlich als Zeichen der Unterstützung des russischen Angriffskriegs auf die Ukraine zur Schau stelle, etwa auf Demonstrationen. Nach Pistorius’ Auffassung könne die öffentliche Billigung des russischen Überfalls als »Störung des öffentlichen Friedens« eingestuft und geahndet werden. Bei konkretem Verdacht solle die Polizei die Tat konsequent verfolgen.

Der Buchstabe »Z«, der seit Beginn des von Wladimir Putin angeordneten völkerrechtswidrigen Krieges gegen die Ukraine als Erkennungszeichen auf Panzern, Fahrzeugen und Uniformen zu sehen ist, hat sich schnell zum Symbol für die Unterstützung des russischen Angriffs entwickelt. Mit dieser Bedeutung ist das Symbol nicht nur in Russland, sondern inzwischen auch in vielen anderen Ländern aufgetaucht.

Niedersachsen nutzt nun einen autonomen Handlungsspielraum, den Südtirol nicht hat, um gegen dieses neue Kriegs- und Gewaltsymbol vorzugehen.


Nachtrag vom 26. März 2022: Bayern hat sich nun Niedersachsen angeschlossen.

Siehe auch ‹1 ‹2 ‹3

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