di Valentino Liberto
In relazione all’intervento di Brigitte Foppa sulla toponomastica (“Alto Adige” di mercoledì 01
02
), mi permetto di suggerire qualche ulteriore sfumatura di carattere più generale. Riguardo le conclusioni dalla portavoce dei Verdi, dissento in parte: per quanto sia presuntuoso credere di risolvere una materia di per sé irrisolvibile, occorre lavorare affinché chi governa eserciti la propria responsabilità politica e ponga fine a una problematica sentita che altrimenti permarrà in eterno. Ciò richiede uno sforzo significativo da ambedue le parti: il cammino verso una convivenza consolidata (lo insegna anche Mandela) è segnato da gesti simbolici di riconciliazione. Chiunque, nessuno escluso, è tenuto a fare un passo indietro, raggiungendo un compromesso. In Sudtirolo potremmo cercare di fare un passo in avanti.
Come sappiamo, lo Statuto d’Autonomia prevede tra i suoi cardini l’esercizio della potestà legislativa autonoma per la materia toponomastica, “fermo restando l’obbligo della bilinguità”. Lo stesso Statuto implica ulteriori meccanismi di gestione del “compromesso etnico” (scuole separate in madrelingua e proporzionale, per esempio) applicati sinora in maniera molto rigida e perlopiù a senso unico, essendo norme concepite principalmente a tutela delle due minoranze “nazionali” tedesca e ladina. Gran parte delle persone che “da sinistra” difendono l’interpretazione pseudo-letterale del comma sui toponimi, pretendono al contempo maggiore flessibilità per quanto contemplato nell’art. 19 (quello che limita una profonda riforma del sistema scolastico locale, ancora largamente basato sul predominio del monolinguismo). La necessità d’interpretare in modo gradualmente più flessibile lo spirito dello Statuto d’Autonomia – in modo da garantire maggiore aderenza alla realtà e alla luce dell’evoluzione che ha avuto la società sudtirolese dal 1972 ad oggi – non significa solo battersi per una distinzione tra “binomismo” e “bilinguità” sui sentieri di montagna, bensì riconoscere che occorre superare l’atteggiamento di rifiuto che emerge da ogni lato; all’immobilismo è facile subentri la degenerazione.
L’articolo 8 dello Statuto era stato ideato come risolutivo rispetto al monolinguismo italiano presente dai tempi del fascismo, per ottemperare alla mancanza d’una legge che ufficializzasse la toponomastica tedesca e ladina, nonché alla mancata abolizione del Prontuario di Ettore Tolomei. Lo Statuto è “programmatico”, ovvero auspica un provvedimento legislativo del Consiglio provinciale. Ergo: sembra che il “peccato originale” dello Statuto sia tutelare la toponomastica tolomeiana e fascista. Non è così. Nacque proprio per tutelarci dalla follia “tolomeiana” e l’applicazione rigida del bilinguismo andò sempre a vantaggio di chi prima era in condizioni svantaggiate. L’articolo fu una conquista, non una sconfitta. La SVP non colse quest’opportunità per timore di veti incrociati. E il vuoto legislativo, l’abbiamo visto, ha finito col produrre la presente deriva: da parte dell’Alpenverein, che ha fatto valere da privato una “sua” legge a Statuto invariato, e da parte governativa, con la dura reazione del ministro Fitto. Redatta insomma anche per garantire il rispetto della toponomastica “storica” da parte italiana, la carta fondamentale dell’Autonomia ha finito per fomentare, suo malgrado, un revanscismo linguistico incrociato. Un ribaltamento nefasto, all’interno della rappresentazione simbolica del conflitto etnico.
Attenzione però: data la difficoltà di “estendere” la coperta statutaria – tirata ora da una parte, ora dall’altra del letto matrimoniale (prima il lato tedesco, poi quello italiano) – bisognerebbe cominciare a ridiscutere sul serio la rigidità di alcune interpretazioni, polarizzate e polarizzanti, dello Statuto e concedere margini di manovra orientati verso un modello di plurilinguismo autenticamente diffuso e più “laico”, senza ricorrere a dogmatismi. E noi, da paladini del plurilinguismo, dovremmo tenerne conto.
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