L’accordo siglato mercoledì scorso tra Provincia e Governo, salvando la faccia ad entrambe le parti in causa, ha introdotto ragionamenti costruttivi, ma non potrà essere l’effettiva soluzione del problema. Riguardo al metodo, l’accordo preso fra gli esecutivi esautora il Consiglio provinciale di una sua competenza primaria; riguardo al contenuto è scontato l’ostruzionismo della destra italiana nei confronti di una rinuncia parziale all’applicazione in toto del prontuario tolomeiano, e dei partiti patriottici sudtirolesi appunto perché rinuncia solo parziale. Non solo la destra italiana, ma anche gli assessori PD della Giunta provinciale non sembrano essersi resi conto che è stata la pretesa di perfetto bilinguismo nella segnaletica a provocare il conflitto ancora in corso, e che quindi non potrà essere la sua soluzione. Anzi, aver riconosciuto il valore della denominazione originaria in lingua tedesca e ladina, cioè dei nomi storici, è il grande passo in avanti dell’accordo Fitto-Durnwalder. Il secondo elemento dirompente, cioè la necessità del criterio dell’utilizzo diffuso dei toponimi, è però destinato a produrre più equivoci e discordia. Chissà perché i due esecutivi non sono stati più precisi nella definizione del metodo di accertamento della diffusione dei nomi.
Certamente la diffusione di un nome tolomeiano non potrà essere comprovato col semplice fatto di essere stato riprodotto sulle cartine Tabacco, come propone il CAI, né potrà esserlo per nomi certamente diffusi, come «Vetta d’Italia», ma insopportabili per i sudtirolesi. L’SVP da anni ha pronto nel cassetto un disegno di legge provinciale che darebbe luogo ad un rilevamento oggettivo con metodi statistici della diffusione dei microtoponimi nella rispettiva zona. L’accordo invece passa la patata ad una commissione la cui stessa composizione prefigura grandi scogli per un’intesa. Essendo la toponomastica in questa provincia simbolicamente talmente caricata, sarebbe stato meglio incaricare una commissione di scienziati di rango internazionale, nominati dall’Italia e dall’Austria coinvolgendo gli esperti locali.
La seconda grande novità è il criterio della «storicità» dei nomi. Fatto salvo che i termini aggiuntivi (lago, monte, malga ecc.) dovranno essere bilingui, per la prima volta con questo accordo si ammette ufficialmente che i nomi inventati da Tolomei non hanno legittimità, almeno se non «diffusamente utilizzati per i comuni e le località», per non parlare di accettanza fra la popolazione che in quelle contrade effettivamente ci vive. Sta qui il grande strappo del nuovo accordo: si riconosce che la microtoponomastica inventata da Tolomei e imposta da Mussolini non ha ragioni né politici né morali né storici per essere conservata in eterno. Non fu l’Alpenverein a condurre una «sapiente forzatura» con i suoi cartelli monolingui, come affermato ieri sull’Alto Adige da Francesco Palermo. La vera forzatura in tutti questi decenni fu l’insistenza della parte italiana, partendo da un’interpretazione stretta dello Statuto, nella completa applicazione dei toponimi del «prontuario», che sono frutto di un regime «del più forte». L’AVS con la sua opera non ha fatto altro che esprimere il disagio profondo provato dai sudtirolesi nei confronti del retaggio tolomeiano. Non essendoci modi di risolvere la questione a livello politico, l’AVS ha evidenziato il carattere culturale autentico del territorio. È qui che si nasconde uno dei maggiori malintesi fra i due gruppi linguistici in questo dibattito: il bilinguismo del territorio. Il ripristino di una segnaletica bilingue a tappeto, basata sui nomi di Tolomei, non potrà mai essere la soluzione accettata da chi ci vive per il semplice motivo che il territorio in termini di nomi autenticamente cresciuti in maggior parte non è bilingue, e tantomeno trilingue nelle valli ladine. Ad eccezione delle aree urbane e forse della Bassa Atesina i toponimi sudtirolesi storici sono di una lingua sola come lo sono in ampie parti della Sardegna e della Valle d’Aosta, con la differenza che da quelle parti non furono stravolti per ordine del regime fascista. In questo senso lo Statuto di autonomia non avrebbe mai dovuto prevedere un bilinguismo perfetto per qualcosa che storicamente e nella memoria collettiva delle popolazioni locali non è bilingue. Avrebbe dovuto fare riferimento alla prassi di altre regioni e paesi, che, una volta liberati da dittature o regimi coloniali si sono affrancati anche dei nomi imposti con la pura forza.
Nonostante queste lacune la strada aperta dall’accordo Durnwalder-Fitto va nella direzione giusta. Resta il compito della rappresentanza politica provinciale di trovare una soluzione generale, democraticamente legittimata. Una soluzione accettata da tutti in questo caso è inimmaginabile, quindi i compromessi sono dovuti: «La convivenza val bene un nome storico» osserva saggiamente Francesco Palermo nel suo commento. Ma sbaglia chi presenta il compromesso ora raggiunto ai vertici come un grande sacrificio del gruppo italiano. Rinunciare ad applicare il prontuario tolomeiano a tappeto su tutti i sentieri ed il sostanziale ritorno ai nomi autentici, accettati dalla popolazione residente sul posto, starebbe a dimostrare che ha vinto lo spirito democratico, la consapevolezza storica, il rispetto delle culture locali e che è stata definitivamente superata l’ideologia che ha creato tutto questo problema.
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