È con piacere che, con il cortese permesso dell’autore, ripubblico un articolo di Giovanni Poggeschi* apparso sull’A. Adige di sabato 14 settembre:
La Catalogna tra autonomia e indipendenza
L’11 settembre scorso si è svolta come ogni anno la festa nazionale della Catalogna, la «Diada». Quella di pochi giorni fa sarà ricordata probabilmente come la «prova generale» per l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna. Infatti si è tenuta nella nazione/regione spagnola posta fra Mediterraneo e Pirenei una catena umana di 480km (!), dal confine francese fino a quello con la Comunità valenzana, che ha visto 1 milione e mezzo di persone tenersi per mano per chiedere con voce ferma il «diritto a decidere».
Questo «diritto a decidere» consiste in un referendum sullo status del paese che le autorità catalane hanno previsto si debba tenere nel 2014: in pratica, una consultazione popolare sull’indipendenza. La manifestazione dell’11 settembre, organizzata da un’istituzione privata, la «Assemblea Nazionale Catalana», intende forzare le autorità catalane nella richiesta inequivocabile al governo spagnolo di tenere il referendum sul diritto a decidere nel 2014, senza rinvii o compromessi che già sembrano essere possibli, dopo le intense (ma semi-nascoste) mediazioni fra il presidente del Consiglio spagnolo Mariano Rajoy e il presidente del governo catalano Artur Mas. A differenza del governo della Gran Bretagna, che ha accordato la possibilità di tenere in Scozia per il prossimo anno un referendum molto simile, il governo spagnolo si è chiuso in un rifiuto basandosi su un’interpretazione della Costituzione sicuramente corretta (la secessione è proibita, poiché la Spagna è indissolubile, secondo l’art. 2 della Costituzione) ma che contrasta con il sentimento popolare crescente, una onda inarrestabile che ogni anno si ingrossa a vista d’occhio, una onda nata più dalla società civile che dai partiti politici, come sempre a rimorchio degli eventi. La Catalogna gode già oggi di un’autonomia molto forte in tutti gli ambiti, da quello linguistico ed educativo a quello economico e finanziario: vi è addirittura una polizia regionale catalana. Negli ultimi anni quello che per la maggior parte era un sentimento autonomista è divenuto per molti (più della metà dei sette milioni di catalani, secondo recenti sondaggi) un chiaro sentimento di indipendenza. Ho usato volutamente varie volte il termine «sentimento», che in una visione positivista non dovrebbe essere rilevante: è questo l’argomento di chi vuole tappare la bocca ai milioni di catalani che sempre più manifestano la loro volontà di indipendenza dalla Spagna.
Pur sapendo che la Costituzione è la base legale per la convivenza che non può essere ignorata, non si può ritenere immutabile un testo che ha (solo!) 35 anni, non si può ignorare la base sociale, la realtà mutata dalla quale poi scaturiscono le decisioni politiche e le successive leggi. Certo i nodi giuridici di un ipotetico futuro Stato catalano non sono pochi né di poco conto: la continuità all’interno dell’Unione europea, il tema del debito pubblico, lo status delle lingue catalana e castigliana (spagnolo), i modi con i quali la classe politica catalana (di levatura modesta come in tutta Europa) dovranno affrontare la crisi economica, se scelte di politica internazionale, sono tutti temi terribilmente concreti ineludibili, più difficili da risolvere di un’organizzazione di una (peraltro ottimamente riuscita e pacifica) catena umana per il «diritto a decidere». Bisogna anche sottolineare che la richiesta, palesata in alcuni slogan e manifesti di «libertà per la Catalogna» appare ingiusta: la Catalogna ha visto prosperare e prendere corpo e visibilità questo sentimento indipendentista proprio perché in Catalogna, ed in tutta la Spagna, le libertà fondamentali sono garantite. Suona anche ingenuo riferire che «adesso saremo liberi, fra l’altro, di determinare la nostra politica energetica»! Bisogna dunque che le autorità spagnole e catalane cerchino un accordo su alcuni punti fondamentali: permettere il referendum sul «diritto a decidere», stabilire quale maggioranza permetterà di considerare vincitori o no i «secessionisti» (non sembra bastare il 50% più un voto, il principio maggioritario puro non è il più indicato per risolvere una volta per tutte una questione così rilevante: allora vorrebbe dire che se nel 2020 in un altro ipotetico contro-referendum quelli che vogliono tornare alla Spagna od unirsi, perché no, alla Francia, ottenessero il 50% più uno dei voti, allora subito bisognerebbe di nuovo cambiare i confini?), permettere una soluzione federale seria che sembra l’unica opzione per tenere unita la Spagna, magari con uno status speciale per la Catalogna, che potrebbe godere di una posizione paritaria con la Spagna.
Quale lezione possiamo trarre dalla nuova questione catalana? Anche l’Alto Adige è terra di rivendicazioni nazionaliste, e di Anschluss si parla ancora. Occorre un continuo dialogo fra partiti e gruppi linguistici, senza arroccamenti né chiusure, ed occorre una strategia ferma e ragionevole nei confronti dello Stato centrale, il quale a sua volta dovrà mostrarsi intelligente ed aperto all’autonomia, senza quel «neo-centralismo» che gli ultimi governi, con la scusa della crisi economica, hanno mostrato. Facile, a parole, difficile nel mondo della politica e della lotta di vari interessi contrapposti. Compito però necessario ed improcrastinabile: la realtà catalana ci ammonisce in questo senso. La Catalogna non è lontana da Bolzano: e non lo sono neanche i Balcani.
Evidenziato in grassetto da
*) Giovanni Poggeschi è professore e ricercatore presso l’Istituto per lo Studio del Federalismo all’Eurac di Bolzano.
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