Le marce inultili degli Schützen hanno indirettamente riportato alla ribalta la «problematica» della toponomastica sui sentieri alpini. Le destre centraliste prontamente ci prospettano soluzioni dai sapori antichi, vagamente all’olio di ricino. Il sapore di una reitalianizzazione forzata e decretata centralmente da Roma — insomma: cose già viste in altre epoche.
Una soluzione inutile a un problema inesistente, soprattutto se, come accade, ci si appella alla sicurezza, in quanto non si ha notizia di infortuni dovuti ad incomprensioni «toponomastiche». Ma evidentemente è solo la copertura — giustificazione balzana ed estemporanea — per un’operazione chiaramente politica, quando migliaia di turisti italiani popolano ogni anno le alpi svizzere ed austriache senza problema alcuno. Una «logica» che inoltre renderebbe auspicabile l’italianizzazione anche dei nomi delle malghe e dei rifugi, e allora, perché no, perfino dei cognomi.
Ma è una soluzione inutile anche perché si tratterebbe non tanto di evitare che un’ingiustizia si compia, bensì di abolire un modus operandi già collaudato da decenni, dovuto a un vuoto normativo, e che in ogni caso ha portato ad una situazione vastamente accettata. Un’anarchia sostanziale, senza un disegno preciso, in cui alcune sezioni dell’AVS hanno voluto tenere conto del bilinguismo ed altre delle cosiddette radici storiche, magari anche compiendo degli errori, ma senza che gli appassionati della montagna, quelli veri, abbiano mai avuto da ridire — perché chi ama la montagna è per sua natura interessato a conoscerla davvero, e non attraverso lo specchio deformante di E.T., il nostro piccolo assimilatore.
In ogni caso, se si sentisse la necessità di dare una soluzione organica alla questione, allora si dovrebbe cercare un consenso in loco, attraverso una decisione democratica, ed assicurandosi di evitare qualsiasi sopraffazione. I metodi del colonialismo invece non faranno altro che alimentare ulteriori tensioni, rafforzando gli opposti estremismi.
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