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La liberazione dall’etnicità.
Stefano Fait e Mauro Fattor all'attacco dei miti etnici

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«Un’analisi corrosiva e spietata degli idoli e dei miti etnici che frenano la società sudtirolese e non solo», promettono i due autori Stefano Fait e Mauro Fattor con la loro opera «Contro i miti etnici» (uscita nel settembre scorso presso l’editore Raetia), con cui si mettono «alla ricerca di un Alto Adige diverso.» Partono dall’ipotesi che questa provincia sia afflitta da «orpelli etnici istituzionalizzati», quindi da una specie di fumogeno — oppure oppio per il popolo come la religione per Karl Marx — creato «dalle persone che campano grazie alla separazione, perché laddove non esiste un problema non c’è bisogno di pagare qualcuno per gestirlo e contenerlo (senza risolverlo).» Quindi il tema dei due autori non è la difficile organizzazione della convivenza quotidiana di due-tre gruppi etnolinguistici che chiedono pari diritti, e le sue implicazioni, ma la dimensione fittizia dell’etnicità stessa, strumento escogitato da qualche politico per dividere e dominare i cittadini, e la proiezione di un’alternativa trans-etnica. Per liberarsi da questo fumo negli occhi i miti etnici vanno smontati e non solo. Con grande impeto e ricco bagaglio scientifico i due autori si accingono a distruggere l’etnicità come categoria esistenziale utile per una società libera e moderna. Una volta liberati dai paraocchi etnici, cioè dalla «benevola segregazione etnica altoatesina», ogni vittimismo e patriottismo sarà roba di altri tempi e potremo finalmente goderci la nuova società non solo multiculturale, ma transculturale.

Per sollevare i sudtirolesi, sudditi dei miti etnici, dalla «ipnosi delle radici e della patria», Fait e Fattor partono da una critica di fondo dei concetti di «Volk», «Heimat» e delle politiche nazionaliste che «bovinizzano» le masse. Con un argomentario filosofico che spazia da Socrate fino Chomsky gli autori mettono in questione non solo l’etnicità, ma postulano di andare «oltre il culturalismo», affermando che non esistono lingue minacciate, ma solo politici che fanno crede alla gente che qualcuno voglia sottrarre loro la propria lingua. Sorprendentemente, anziché passare da questo teorema forte a una critica generale del nazionalismo delle 190 nazioni-stato in cui è suddiviso il mondo odierno, gli autori sono dell’avviso che questi presunti mali storici si concentrino nel gruppo etnico tedesco del Sudtirolo. Avrei meno problemi ad accettare il loro approccio se domani tutti i governi nazionali si mettessero ad un tavolo per decidere l’abolizione ufficiale delle lingue nazionali, l’abbandono immediato del principio dell’integrità nazionale degli stati membri (che il Trattato di Lisbona dell’UE riconosce come principio supremo), se scegliessero una lingua mondiale di comunicazione lasciando ogni altra attività culturale alla libera scelta dei privati post-etnici e atomizzati. Certo, sarebbe un mondo più tetro e noioso, ma sicuramente libero di proporzionali etniche e patentini di bilinguismo, eroi nazionali e lotte sui toponimi bilingui. Ingenuamente mi vien da chiedere: ma perché con quest’opera di de-costruzione etnica e culturale dovremmo iniziare proprio nel piccolo Sudtirolo, lo 0,1% della popolazione dell’UE? Perché dovrebbero essere le minoranze nazionali a liberarsi del bagaglio etnico lasciando fuori considerazione chi esercita dominio culturale in forma statale?

Una tesi centrale del lavoro di Fait e Fattor è la «superstimolazione etnica», che in Sudtirolo vedono concretizzarsi in una serie di sintomi partendo da manifestazioni dello Heimatbund, passando alle posizioni di qualche esponente della SVP e le rivendicazioni politiche della destra patriottica per arrivare a qualche spericolata affermazione di giovani Schützen. A parte l’analisi fin troppo unilaterale della società locale che da per scontato che la parte italiana non mostri nessun sintomo di «superstimolazione» o di attaccamento a simboli etnico-culturali, questo concetto non mi pare possa riflettere il carattere della società sudtirolese e delle forze che animano la sua dinamica interna. Non dubito che in Sudtirolo l’identità etnico-culturale — l’atteggiamento di «essere la mia lingua, essere la mia cultura», direbbero Fait e Fattor — sia particolarmente sentita. Anche chi ha solo sfiorato la storia di questa terra dell’ultimo secolo può facilmente spiegarsene le ragioni. È un fenomeno risaputa da chiunque si occupi di minoranze etniche. Il sudtirolese medio non è più legato alla presunta ideologia del «Bergbauer», è molto più «moderno» di quanto i due autori dalla loro scrivania a Bolzano immaginino. Ma nella vita quotidiana del Sudtirolo non credo si possa vivere più «stimolazioni identitarie» che in altre regioni alpine simili. Piuttosto si tratta di gente che vuole vivere e organizzare la sua comunità secondo i propri valori e parametri culturali, come pure i vicini al sud e al nord. Invece di estenuare il lettore con tante pagine di approcci filosofici post-etnici, gli autori avrebbero fatto meglio a calarsi di più nella realtà quotidiana della vita dei sudtirolesi.

Gli autori riscoprono l’acqua calda quando affermano che l’etnicità sia una costruzione sociale, basata su processi di ricerca e trasmissione di identità individuali e collettivi. Un concetto primordiale di etnicità basato su «Blut und Boden», su caratteristiche etniche di gruppi endogami o omogenei è superato pure dalle nostre parti. E chi dubita che l’etnonazionalismo possa sfociare in gravi conflitti come quelli vissuti in Bosnia, in Irlanda del Nord e in Palestina. Paragoni fin troppo sviati per il tranquillo Sudtirolo. Dopotutto, del nazionalismo non sono attori principali gli stati nazionali con i rispettivi popoli titolari? Le minoranze etniche lo sono semmai di riflesso, dovendo organizzare la loro identità culturale in un contesto dominato dalla cultura dominante dello stato. Oppure Fait e Fattor considerano l’Italia un paradiso multiculturale, il migliore dei mondi per le minoranze etniche?

Nell’ottica di Fait e Fattor il cittadino globale post-etnico percepisce «l’etnicità» come puro fardello, come retaggio pesante del passato. È un soggetto multilingue libero da costumi tradizionali, che gira il mondo senza «culturalismi», si diverte negli spettacoli folcloristici (che vanno bene per i popoli indigeni), assaggia le ricette etniche, ammira l’architettura etnica e si stupisce della cultura religiosa. Un bel supermercato, in cui l’etnicità diverte e non da fastidio. Guai se «l’etnico» si fa anche politico. Tornato a casa, il cittadino post-etnico non è interessato a confrontarsi con tali relitti del passato. Un atteggiamento che mi ricorda le autorità cinesi, che dall’alto della loro civiltà coccolano le minoranze etniche finché si limitano a coltivare i loro costumi. Appena affiorano le rivendicazioni politiche di autogoverno l’etnicità si fa sospetta, la tolleranza inizia a sgretolarsi. Presentata in questi termini, la visione di Fait e Fattor di una società post-etnica del Sudtirolo finisce ad essere una proiezione di un nuovo mito, sganciato sia da un’elaborazione della storia della minoranza sudtirolese, sia da un’analisi empirica della realtà quotidiana dei sudtirolesi. «Il presupposto per una buona convivenza — così­ una delle conclusioni degli autori — è andare oltre il culturalismo». Di culturalismo probabilmente pochi sudtirolesi s’intendono, ma difficilmente immaginano un futuro senza la loro lingua e cultura, senza uno stretto legame alla loro territorio, senza collegamento al mondo linguistico tedesco, cioè le condizioni culturali «normali» di ogni cittadino nei paesi confinanti. Tutto questo non è insolito per le microsocietà regionali europee non dico le più «moderne», ma quelle normali, tipiche, riscontrabili dovunque. Fait e Fattor nel loro lavoro stimolante (poteva sicuramente essere più conciso) propongono una visione idealista, normativa sull’etnicità, ma troppo lontana dalla realtà che le persone vivono, e dalle preferenze che concretamente ogni giorno esprimono. Inoltre, a parte le schermaglie sui vari simboli, il Sudtirolo oggi non sembra essere zona di un conflitto etnico acceso. Nella democrazia, con tutti i suoi limiti, la popolazione sceglie secondo le sue preferenze e conoscenze, che piaccia o meno agli scienziati post-etnici. Senza soccombere al potere dei fatti, voler insegnare cosa in fondo dovrebbero volere è un atteggiamento non poco arrogante. L’uomo post-etnico, che «contiene la moltitudine culturale» ovviamente non fa per i sudtirolesi. Forse sono semplicemente come i trentini e i nordtirolesi, interessati a vivere nella propria cultura, organizzando una buona convivenza con gli altri gruppi presenti sullo stesso territorio, aprendosi e modernizzandosi secondo i propri canoni e bisogni. Forse occorre una certa dose di modestia per rispettare delle scelte culturali di gruppi che poi si riflettono sul livello politico, senza stigmatizzarli come «bovinizzati dai manipolatori etnici».

Bibliografia:

Stefano Fait/Mauro Fattor
Contro i miti etnici

Alla ricerca di un Alto Adige diverso
RAETIA, Bolzano 2010, 222 pp., 18.- Euro


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8 responses to “La liberazione dall’etnicità.
Stefano Fait e Mauro Fattor all'attacco dei miti etnici

  1. Sandro avatar
    Sandro

    Ho dato una sbirciata veloce al libro in biblioteca comunale e mi ha riportato agli anni settanta e ottanta quando negli ambienti cosidetti “alternativi” si discuteva di una società universale senza connotati nazionali e queste utopie erano propagato soprattutto dai “compagni” di lingua italiana, quelli di lingua tedesca gli rinfacciavano un comportamento di superiorità intellettuale. Il libro mette sapientemente in discussione la struttura della società sudtirolese, senza ammettere i successi non solo legati ad un bilancio ricco e sostanzioso, ma al carattere delle popolazioni di montagna e alle tradizioni fino a qui rispettate.
    La società si è evoluta e la struttura autonomistica ha dato i suoi frutti. Non so se avete avuto occasione si girare tra le valli alpine lombarde o piemontesi ed osservare il degrado l’abbandono della montagna, fenomeno non dovuto solamente al mancato benessere, alla poca attenzione degli amministratori ai problemi delle popolazioni alpine, ma anche al mancato radicamento del territorio. Da alcuni anni trascorro una settimana estiva in una di queste valli, dalla Val Sesia alla val di Mello o val Masino, dalla valle del Pó, dalla valle Maira, in Val Pellice e poi nelle valli venete e trentine. Cosa si nota, oltre alle tante seconde case che hanno portato poco benessere e tanto cemento, una ricerca e rivalorizzazione delle proprie origini e tradizioni dopo lo sgretolamento delle loro tradizioni dovuto all’abbandono dei campi per le fabbriche. In valle del Po, dove Bossi si reca ogni anno alle sorgenti del Po sventolavano soprattutto bandiere occitane, pochi tricolori o vessilli leghisti. La valle vive solamente del turismo “merenderos” e offre poche opportunità lavorative per i giovani. La situazione lavorativa è molto peggiorata, dopo che alcune fabbriche del posto hanno chiuso per la crisi legata all’indotto automobilistico e i giovani stentano a trovare un’occupazione stabile. I paesi fuori stagione sono popolati solamente dagli anziani. Non so se avete visto il film “il vento fa il suo giro” che si rifà ad una storia realmente accaduta ad Ostana, ma girato nella limitrofa val Maira. E’ un film che rispecchia abbastanza tale realtà che è addirittura peggiorata.
    In val Pellice ho incontrato soprattutto turisti germanici, attirati da un simile percorso religioso. La chiesa evangelica valdese ha garantito un collante molto forte tra la popolazione della valle e molti escursionisti tedeschi di fede luterana trovano la valle molto interessante e ciò ha contribuito alla valorizzazione di un turismo meno invadente sul territorio.
    Con questo volevo dire, che non ritengo un successo un’omologazione o standardizzazione di culture e popoli, ma presumo invece che una ricerca delle proprie tradizioni ed identità dia forza e sostegno.
    Ma tornando alla nostra realtà locale, da mistilingue cresciuto sul territorio con un’identità suddivisa tra le varie origini paterne e materne, trovo che sia assolutamente necessario offrire a tutti i suoi abitanti l’opportunità di sentirsi a casa loro. Una Heimat condivisa dai molti gruppi linguistici, alla quale molti cittadini di lingua italiana devono ancora trovare un approccio diverso, che non si limiti solamente alla conoscenza della seconda lingua, ma al rispetto delle tradizioni locali. Il tema della toponomastica per come è stato gestito dai media di lingua italiana mi ha deluso, spero che trovi una diversa collocazione in futuro.

  2. stefano fait avatar
    stefano fait

    Voglio ringraziare Thomas Benedikter per lo spazio che ci ha concesso, per essersi addentrato nel saggio e per aver condiviso alcune premesse di fondo – l’etnia è un costrutto – che, purtroppo, altri ancora fanno fatica ad accettare.
    Vorrei segnalare due inesattezze.
    La prima inesattezza è che non ci siamo dedicati ad una “critica generale del nazionalismo delle 190 nazioni dotate di uno stato”. Mi sorprende perché la denuncia di ogni tipo di nazionalismo occupa la bellezza di trentaquattro pagine – ossia un’intera sezione (Heimat/Patria) ed un capitolo (“I Giusti tra le Nazioni”). Quasi il 20% del nostro testo!
    La seconda inesattezza, che temo nasca da un pregiudizio che ha inficiato la comprensione del testo, è che predichiamo l’avvento di una monocultura monolinguistica. Al contrario, invitiamo ciascuno a diventare pluriculturale e plurilinguistico, com’è normale essere in aree a forte immigrazione e grande varietà (come lo è, magnificamente, lo stesso Thomas Benedikter). Il clichè della globalizzazione omologante e tetra è l’ormai frusto ed irritante strumento retorico della propaganda etnopopulista che cozza con una realtà che è sempre stata diversificata (Hofer parlava tirolese e trentino e conosceva il tedesco ed il veneziano. Attila era un unno, con nome goto ed educazione romana) e si avvia ad esserlo sempre più, come chiunque abbia occhi per vedere la realtà delle nostre città potrà  constatare di persona.
    È per me decisamente sconfortante osservare come le decine di migliaia di residenti stranieri in Alto Adige, provenienti da 126 paesi, siano rinchiusi in uno sgabuzzino cognitivo, come se non esistessero, come se per loro dovesse essere normale adattarsi ad una situazione surreale, in cui sono chiamati ad optare per un’identità che significa poco o nulla per molti di loro, senza che sia una scelta libera ed informata. Questa stessa logica, che vuole piegare la realtà per adeguarla ai propri schemi mentali, cancella i mistilingue e quei monolingue (o sostanzialmente tali) che comunque non sentono alcun legame forte con il gruppo etnico di appartenenza. Nel complesso, una fetta enorme di popolazione non conta, perché il paradigma etnicista dominante non può contemplarli. Sono uno scomodo capriccio della natura. Questi sono i paraocchi etnici, frutto della strumentalizzazione della variabile etnica in Alto Adige da parte dei politici e di tutti quelli che hanno lucrato e lucrano sulle divisioni (“esperti” inclusi) – l’ingordigia degli spartitori del bottino mascherata da nobili disposizioni dell’animo!
    “Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo”, ammoniva Goethe, con grande lucidità .
    Ora il mondo è cambiato: l’11 settembre, l’esportazione della “democrazia”, l’inglobamento dell’Europa orientale, la Depressione socio-economica, il confronto Israele-Iran, l’immigrazione di massa, l’introduzione di internet e dei social network, la globalizzazione, l’ascesa cinese, l’avanzata degli etnopopulismi ed integralismi in tutta Europa e negli Stati Uniti. Il mondo è cambiato e non si può far finta di nulla. Chi c’era prima non c’è più e le colpe dei padri non ricadono sui figli, né i vittimismi incrociati si trasmettono col latte materno. Persino un sindaco leghista l’ha capito: “I bambini non hanno colore, basta guardarli quando sono tra di loro, non sanno cosa sia la differenza e allora vuol dire che la differenza non c’蔝 (Gianangelo Bof, sindaco di Tarzo, TV). La persona non esiste “naturalmente” per la società, per il gruppo etnico o per un qualche dio minore, esiste “naturalmente” di per se stessa. Le civiltà non hanno idee, solo le persone le hanno. Questa non è un’aspirazione idealistica, è un dato di fatto per genetisti, bio-antropologi, etnografi e per chiunque cerchi di osservare la realtà in un modo sufficientemente obiettivo. Punto.
    Di qui il tormento di chi è più sensibile, come Gianluca/Lukas, che citiamo nel testo: “La mia parte sinistra è completamente tedesca, mentre la mia parte destra completamente italiana. Le ho sempre vissute come due estremità che non possono andare d’accordo, come l’acqua e il fuoco. Solo ultimamente sto trovando una via di mezzo. Prima, o ero completamente tedesco (a casa parlavo un dialetto molto stretto), o ero completamente italiano. O una parte o l’altra. Quando ne vivevo solo una, l’altra ne soffriva. Dovevo sottomettere una parte per far vivere l’altra. Ho sempre vissuto così, fino a quando mi sono accorto che si trattava di una vera e propria violenza”. Le centinaia, forse migliaia di persone come lui sono pedine sacrificabili sull’altare della Realpolitik locale? Io credo di no, credo che quello del 2011 sarà CERTAMENTE l’ultimo censimento linguistico atipico e credo infine che sarebbe saggio pensare a cosa verrà dopo. O forse Thomas Benedikter considera l’Alto Adige un paradiso multiculturale, il migliore dei mondi per le minoranze etniche?
    @Sandro, un giudizio sbrigativamente liquidatorio dopo una “sbirciata veloce” ad un libro di questa complessità non rende onore né al libro né alla tua intelligenza (che è, per altri versi, cospicua, a giudicare da una lettura non veloce del tuo commento)

  3. stefano fait avatar
    stefano fait

    Thomas,

    Credo che la mia risposta precedente sia sufficiente anche per la recensione aggiornata. Tuttavia vorrei chiarire un punto importante.
    Io e Mauro non abbiamo scritto questo libro per dire: “siamo fichi, diventate come noi, barbari ignoranti!”
    Certamente noi siamo contenti di come siamo, altrimenti cercheremmo di cambiare. Anche tu, Thomas, e immagino anche Sandro e tanti altri, sono contenti di come sono. A noi questo va benissimo. Anzi, è proprio quello che vogliamo! Vogliamo che nessuno sia costretto a vivere in un modo che lo fa soffrire che sente che va contro la sua coscienza, la sua indole, quel che sente dentro.
    Ma quando certe idee diventano troppo forti (miti etnici, miti religiosi, miti nazionalisti, miti razzisti, ecc.) tante persone finiscono schiacciate (più spesso le donne, i bambini, gli omosessuali, chiunque sia diverso) e tante altre non riescono a capire che ci possono essere alternative migliori. Le persone vengono prima delle idee, sempre.
    Vogliamo solo una società  più libera e più informata, non una società  dove tutti sono come noi e la pensano come noi. Solo così l’Alto Adige rimarrà  pacifico, anche quando non ci saranno più così tanti soldi per tutti.

  4. señor g avatar
    señor g

    A mio modesto parere il punto qualificante della critica di Benedikter è che l’autonomia è una reazione (funzionante) allo stato-nazione. Possiamo superare l’una solo se prima/contemporaneamente superiamo l’altro, oppure cerchiamo una via di fuga come quella ideata da BBD.

  5. pérvasion avatar

    Hinweis: Herr Fait hat die überarbeitete Fassung kommentiert, bevor sie hier am gestrigen späten Abend veröffentlicht wurde.

  6. Sandro avatar
    Sandro

    @ Stefano Fait
    Sicuramente il mio giudizio era troppo affrettato e me ne scuso. Il libro riesce a cogliere a pieno i limiti dell’ideologia identitaria evidenziandone i limiti e aggiungo a prescindere dalla nostra realtà  territoriale. Simili conflitti di identità  si manifestano in altrettanti paesi dove convivono persone provenienti da diverse realtà  geografiche. Non voglio rimanere troppo sull’astratto, le nipoti di mia moglie che vivono a Vienna e che hanno un padre turco riscontrano simili difficoltà  a quelle di un mistilingue locale. Il fenomeno dei matrimoni mistilingui nella nostra realtà  territoriale si è sempre manifestato anche se in termini minori. Scandagliando le ramificazioni dei miei antenati, nel giro di cinque generazioni sono avvenuti più unioni tra persone parlanti lingue diverse. Nel giro di due generazioni l’integrazione era riuscita e non è sempre stata accompagnata da difficili conflitti identitari, dipendeva molto dalla situazione storica. Anche io sono figlio di un tale fenomeno che mi ha arricchito e spesso disorientato, ma i miei figli consci di portare un nome italiano non se ne vergognano sentendosi a casa propria nella lingua (tedesca) che loro parlano e non soffrono di problemi identitari . Ho scritto vergognano, perché effettivamente succede spesso che a forza di volersi integrare, alcuni mistilingue cercano di nascondere le proprie origini. A questo proposito volevo aggiungere che i rapporti interpersonali tra persone di lingue e culture diverse si sono evoluti, se si è disponibili al dialogo, ad imparare la seconda lingua e a comprendere la cultura e storia locale. Parlando abbastanza bene la seconda lingua, ho trovato molte porte aperte in varie associazioni di lingua tedesca che fino a poco anni fa tenevano a marcare i confini etnici. Nelle associazioni sportive che i miei figli frequentano, ci sono bambini e adolescenti di varie provenienze. I nuovi arrivati faticano ad ambientarsi, ma a prescindere dalle nostre cosiddette gabbie etniche dorate o meno, il loro codice di comportamento specie se proveniente da paesi extra-europei fatica a comprendere i nostri. Ci vorranno più generazioni per trovarsi, insieme in montagna ad arrampicare o sulla pista di sci in inverno. La demografia della nostra provincia e in continua evoluzione, i risultati delle ultime elezioni comunali ne evidenziano le novità . L’FF lo ha fatto in un editoriale dopo le elezioni, i candidati eletti di lingua italiana sono quasi del tutto scomparsi nelle valli. Tale fenomeno verrà  evidenziato dal prossimo censimento della popolazione, sono sempre meno quelli provenienti da altre provincie che cercano casa sul territorio e chi lo fa cerca di smarcarsi dal passato storico con il quale non si sente rappresentato.
    Tornando al libro che cercherò di leggere e giudicare con più attenzione, vorrei aggiungere qualcosa sul capitolo dedicato alla questione toponomastica. Dato che il libro è scritto in lingua italiana in un linguaggio abbastanza forbito alla portata del lettore medio/alto di italiana e spero anche tedesca, il messaggio agli altoatesini dovrebbe essere quello di fare uno sforzo maggiore per togliersi da quel difficile passato. Mi sembra che in quel capitolo tu dici: nella proposta di revisione della toponomastica in direzione di un sostanziale monolinguismo tedesco è assente qualsiasi sviluppo storico… e ancora far vivere i nomi in quanto presente storico indipendentemente dalle loro origini….. Tra il presente-politico della toponomastica di Tolomei e il passato-storico propugnato da quanti vorrebbero abolirlo, esiste una terza via: quella che guarda ai nomi come presente storico.
    E qui vorrei aggiungere che a chi propugna il mantenimento del nome ”Vetta d’Italia” manca di fantasia e presente politico. Alexander Langer negli anni ottanta propose di cambiarne il nome in vetta d’Europa, io lascerei il toponimo originale di Glockenkarkopf, rinnegando quel simbolo di vittoria coloniale ad una cima poco imponente e alpinisticamente insignificante. La cima rimane in ombra appunto della più bella e maestosa cima della Drei Herren Spitze (Picco dei tre signori) a questo proposito ricollegandomi con il presente politico opterei per rinominare tale cima : ”vier oder fünf Herrenspitze” cioè punto di incontro tra sudtirolesi, tirolesi dell’est del Salisburghese e degli italiani o altro.

  7. stefano fait avatar
    stefano fait

    @Sandro, sono d’accordo con tutto quel che dici e ti ringrazio per aver descritto così bene la complessità  della tua (vostra) esperienza che, peraltro, mi dà  fiducia, perchè sono convinto che l’integrazione dei nuovi venuti sarà , per certi versi, addirittura facilitata dalla dura esperienza locale (facilitata, non risolta all’istante!).
    Preciso che non ho scritto il capitolo sulla toponomastica, perché non sarei stato in grado di farlo. Di base “Glockenkarkopf” mi andrebbe benissimo, semplicemente perché sono affascinato da ciò che è “altro da me” e ancor più da quel che abbiamo in comune, nonostante le declinazioni diverse. Però immagino che gli altoatesini direbbero che “queste cose si fanno in Cina” per riprendere il discorso di Thomas e allora si finirebbe per fare a gara a chi è il più tibetano. A me, personalmente, è piaciuta la posizione dell’associazione degli albergatori:

    Il direttivo dell’Hgv chiede di tornare su un terreno più pragmatico perché una discussione portata avanti sul piano delle emozioni non porta da nessuna parte. In una terra bilingue anche i cartelli dovrebbero essere in due lingue. Siamo favorevoli alla proposta portata avanti dall’assessore Berger e dal presidente Durnwalder: i nomi di Comuni e frazioni devono essere tutti bilingui, così come le definizioni informative come ”lago” o ”malga”. I nomi storici è invece giusto che restino nella lingua tedesca. Le continue discussioni sulla toponomastica non servono a niente se non a creare insicurezza tra gli abitanti di questa terra e i turisti: chiediamo quindi alla politica di trovare al più presto una soluzione per chiudere una volta per tutte la questione.

    Per la stessa ragione, mi piacerebbe che il libro fosse tradotto in tedesco, per consentire a tutti di discuterne. Purtroppo, per ora, pare che non sia questa la volontà  della casa editrice e così sembra che parliamo solo ai “nostri”, che “nostri” non sono. E’ infatti questo “noi” e “voi”, “io” e “tu”, “nostro”, “mio”, “vostro”, “tuo”, “gli altri”, ecc. che cerchiamo di smitizzare, di ridimensionare.
    Diversamente dalla preoccupata interpretazione di Thomas, la nostra premessa è anti-totalitaria ed è la seguente:

    L’identità  non è una forma platonica, non è un qualcosa di essenziale ed immutabile, fino al decesso. Lo è solo per chi non riesce a tenere a freno il suo narcisismo. Tutti possiedono identità  e ruoli molteplici: padre, madre, figlio, figlia, zio, zia, fratello o sorella, contadino o avvocato, liberale o socialista o nazionalista, politico, medico, soldato, amante dell’hip hop o credente. Non siamo MAI una singola persona, ma sempre molte persone in una. Siamo una moltitudine, come Walt Whitman ci ha opportunamente rammentato: ”Mi contraddico? Ebbene sì. Mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini”. Questa è, obiettivamente, la condizione umana. Ridurre se stessi o un altro ad una singola identità , fissandola, significa impoverirsi e impoverirlo. È un’azione narcisistica e tirannica che nega la realtà  dei fatti, ossia che gli umani sono esseri multiformi che si espandono e si contraggono, si identificano e si differenziano, si dividono per poi unirsi, entrano ed escono da ogni identità , che è provvisoria perché è una costruzione e dipende dalle contingenze.

    Di conseguenza, rispondendo a señor g, il nostro non è un attacco all’autonomia ma, ci auguriamo, un viatico/preludio ad un’autonomia euregionale, che sarà  più forte e meno vessatoria di quella attuale, in una socetà  in cui chi detiene il potere (stato, provincia, mercato, religione, rappresentante etno-linguistico, ecc.) non deve permettersi di stabilire chi io sia e chi debba essere.
    Grazie molto della disponibilità  di tutti, a partire da Thomas!

  8. Simon avatar

    Stefano Fait, Kämpfer gegen die ethnischen Mythen, spricht sich nicht nur für das Recht auf Wiederbetätigung (Wiedergründung der faschistischen Partei) aus [siehe], sondern kritisiert [hier] auch noch Hannah Arendts antifaschistischen Satz (»niemand hat das Recht [einem solchen Regime] zu gehorchen«) als faschistisch.

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