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Europa: una nuova prospettiva sui processi d’indipendenza.

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di Gennaro Ferraiuolo*

Nel dibattito sulla prospettiva di una Catalunya indipendente, il fattore UE è una delle armi più spesso utilizzate da chi è contrario alla secessione dalla Spagna e al diritto del popolo catalano di esprimersi, attraverso un referendum, sulla questione. Le conseguenze di una inevitabile uscita dall’Unione e l’impossibilità di rientrarvi per l’annunciato veto di Madrid renderebbero quasi superflua ogni discussione, trasformando automaticamente i sostenitori del procés in nemici del benessere e del progresso del paese.

Non si intende entrare nel tema, controverso, della ineluttabilità giuridica e della insuperabilità politica di una fuoriuscita dall’Unione di un ipotetico nuovo Stato indipendente che si separa da uno Stato membro. Quello su cui interessa ragionare è il sostanziale rifiuto sino ad oggi mostrato dalle istituzioni europee di confrontarsi con una questione considerata – in maniera per lo più implicita, in rari casi esplicita ma laconica – un assunto tutto interno alla dimensione spagnola.

Il rapporto tra processi (d’integrazione europea da un lato, sobiranista dall’altro) potrebbe apparire insanabilmente conflittuale per la loro differente direzione (unione/divisione). Ma, ad una analisi più profonda, il discorso può ribaltarsi: quei processi esprimono entrambi – univocamente – la tensione al superamento della sovranità assoluta dello Stato-nazione. E’ la stessa domanda di permanenza nell’Unione a rendere quella degli indipendentisti (catalani e scozzesi) una richiesta di sovranità  pur sempre limitata; una richiesta di una indipendenza fondata sul presupposto di una irrinunciabile interdipendenza tra le realtà statuali contemporanee. La cornice europea potrebbe rappresentare, in questo scenario, un fondamentale elemento di sdrammatizzazione delle tensioni in atto.

L’indifferenza delle istituzioni comunitarie potrebbe dunque celare non la difesa di una ordinata evoluzione della storia, che guarda, attraverso l’idea di Europa, al superamento delle tradizionali frontiere nazionali; ma al contrario, e paradossalmente, una strenua difesa di quelle frontiere medesime, assunte come immodificabili. Si intravede, al fondo, un preciso calcolo utilitaristico dei governi nazionali, che mostra come gli incontrastati signori dell’Europa siano ancora questi ultimi e non i cittadini.

D’altra parte una simile impostazione traspare in modo chiaro in molte riflessioni proposte nel dibattito pubblico. Un autorevole politico italiano, ad esempio, ha paragonato le rivendicazioni scozzesi (e catalane) all’attentato di Sarajevo che condusse allo scoppio del primo conflitto mondiale. L’indipendenza della Scozia – questo il ragionamento – avrebbe privato il Regno Unito, in vista del referendum sulla permanenza nella UE, della porzione di popolazione più europeista, favorendo la vittoria degli euroscettici e una irrimediabile crisi del processo di integrazione.

Non si vogliono valutare, nel merito, gli intenti (probabilmente condivisibili) che stanno alla base di simili posizioni. Queste sembrano però supportate soltanto da valutazioni di ordine geopolitico etero-determinate, che rimandano all’idea di uno stratega che, osservando dall’alto una scacchiera, decide quali pezzi vadano mossi e come. Si omette, invece, qualsiasi considerazione dei contenuti di determinate istanze, del supporto popolare che le sostiene, delle motivazioni che ne stanno alla base.

Un simile modo di ragionare rischia peraltro di condurre ad esiti contraddittori. Il referendum britannico sull’UE si terrà; pare – come ha annunciato Cameron dopo le elezioni dello scorso maggio – entro il 2017. Nel caso l’out – nonostante la Scozia – prevalesse, lo stratega dovrebbe cambiare radicalmente impostazione: la secessione andrebbe a quel punto auspicata, perché consentirebbe ad un frammento importante del Regno non più Unito di permanere (o rientrare?) nell’edificio europeo. Gli indipendentisti scozzesi, da dinamitardi dell’Europa ne diventerebbero, improvvisamente, paladini: e in effetti essi, in modo coerente con la loro vocazione europeista, hanno già chiesto che nel referendum si tenga conto della volontà delle diverse nazioni del Regno, evitando che la Scozia sia costretta ad abbandonare l’UE per il voto degli inglesi.

Nello scenario – ipotetico – descritto, ci si dovrebbe confrontare con le posizioni cui oggi si presta accondiscendenza. Se il dato decisivo è quello – formale – della entità statuale che partecipa all’Unione attraverso la stipula dei trattati, un nuovo Stato indipendente dovrebbe sempre intraprendere, ex novo, il percorso di adesione; e se il prevedibile veto ritorsivo spagnolo – inteso a non creare un precedente su cui possano far leva i catalani – fosse effettivamente un ostacolo giuridicamente e politicamente insormontabile, l’UE dovrebbe, suo malgrado, vedersi costretta a tenere fuori la Scozia europeista e quei cittadini scozzesi già cittadini europei e che vogliono continuare ad esserlo.

E’ molto probabile che il pragmatismo delle istituzioni europee troverebbe il modo di scongiurare tali conseguenze. Ma, proprio in questa prospettiva, è forse necessario iniziare a riflettere in modo diverso su fenomeni che, per il rilievo assunto, richiedono un più sistematico e coerente inquadramento. Evitando, quindi, atteggiamenti appiattiti sulle convenienze contingenti e sui desiderata dei governi statali, che portano ad eludere questioni cruciali.

Per far ciò occorrerebbe considerare – come suggerito da alcuni studiosi – la questione degli indipendentismi che si agitano in seno all’Unione quale problema europeo: senza affidarsi ad un assoluto principio di non ingerenza (anacronistico in rapporto al livello d’integrazione raggiunto), ma ricercando risposte adeguate alle problematiche attuali nel bilanciamento tra “i diritti delle persone appartenenti a minoranze” (art. 2 TUE) e il rispetto delle “funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale” degli Stati membri (art. 4, co. 2 TUE).

Per tale strada, l’Europa potrebbe assumere, prima di tutto, un fondamentale ruolo nella selezione degli interlocutori: distinguendo le istanze riconducibili al nazionalismo liberale da quelle di stampo etnico-razziale (di norma, e non a caso, caratterizzate da un’impostazione spiccatamente antieuropea). Ancora, potrebbe promuovere il dialogo tra nazionalismi dominanti e nazionalismi minoritari, contrastando posizioni di immobilismo che rischiano di acuire irrimediabilmente il conflitto (come ha provato a fare, di recente, il Parlamento danese con l’approvazione, il 19 maggio, di una mozione sulla questione catalana, che dovrebbe avere ora un seguito innanzi al Consiglio d’Europa). Infine, potrebbe contribuire – se necessario – ad incanalare i processi secessionisti entro percorsi democratici, all’interno dei quali l’opinione dei cittadini possa formarsi ed esprimersi in maniera pienamente consapevole e dunque libera.

*) Gennaro Ferraiuolo è professore di diritto costituzionale presso l’Università Federico II di Napoli; l’articolo è apparso su Vilaweb ed è stato tradotto dal catalano da Col·lectiu Emma.


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