Gli italiani presero tutti i maschi adulti, sessantuno contadini tra i quarantacinque e i sessantacinque anni (quelli più giovani erano al fronte, in Galizia). Li portano oltre l’Isonzo, al ponte di Idrsko, dove li misero in fila e ne fucilarono alla schiena uno ogni dieci. Gli uccisi vennero sepolti sul posto.
Di cos’era accusata, o meglio, ‘sospettata’ la popolazione di quei paesini? Di avere nascosto disertori italiani (la guerra era appena cominciata ma ce n’erano già molti) e di avere rivelato le posizioni italiane all’esercito austriaco… cioè quello che da seicento anni era l’esercito del loro paese. L’esercito nel quale stavano combattendo i loro figli.
Aggiungiamo che, sul fronte italiano, migliaia di civili furono arrestati e internati per vari motivi, perché “spie”, o “austriacanti”, o “disfattisti”, o meramente perché slavi, o per un semplice capriccio delle nuove autorità.
Ancor prima di annetterle, l’Italia si presentò nelle terre “irredente” nel modo peggiore, e in quel modo avrebbe continuato.
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Insubordinazione e diserzione erano gli incubi dell’alto comando, ‘et pour cause’. Durante la guerra si svolsero ben 162.563 processi militari ad accusati ti diserzione. Di questi, 101.685 furono riconosciuti colpevoli. Le condanne a morte furono 4028, di cui 2967 emesse in contumacia. Quasi un decimo dei mobilitati subì indagini disciplinari. Dall’aprile del 1917 la pena di morte scattò per qualunque soldato tardasse di tre giorni nel rientrare dalla licenza.
Questi sono numeri record. Gli storici che hanno tentato raffronti non hanno riscontrato nulla di tali proporzioni negli altri eserciti, alleati o nemici che fossero.
Wu Ming I (Cent’anni a Nordest, Rizzoli, 2015)
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