Recentemente il presidente catalano Carles Puigdemont (PDeCAT) ha passato alcuni giorni a Ginevra, in Svizzera, dove domenica scorsa ha anche partecipato a un dibattito nell’ambito del Festival del film e forum internazionale sui diritti umani (FIFDH). Nel corso di questo dibattito — diretto da Darius Rochebin della TV pubblica RTS, ed al quale hanno preso parte anche l’ex presidente svizzera Micheline Calmy-Rey, il giornalista del País Xavier Vidal Folch e Nicolas Levrat, direttore del dipartimento di diritto pubblico internazionale e organizzazioni internazionali — si sono svolti dei ragionamenti molto interessanti e importanti, per cui ho deciso di trascrivere e tradurne alcuni. Nonostante la lunghezza penso che valga assolutamente la pena leggerli.
Nicolas Levrat: Il diritto all’autodeterminazione aspira a creare dialogo e fondamenta la legittimazione democratica dei poteri. Nella struttura attuale della comunità internazionale è un diritto umano che è problematico. Perché? Perché questi diritti fondamentali sono enunciati a livello internazionale, ma in seguito sono gli stati a doverli mettere in opera. E il diritto all’autodeterminazione è un diritto dei singoli, ma che non può venir esercitato che collettivamente, nella cornice di un progetto di autodeterminazione nel quale un popolo si afferma. Evidentemente chiedere agli stati di garantire questo diritto è difficile perché è un diritto che mette in questione, se va fino in fondo, l’esistenza stessa dello stato. Dunque effettivamente è un diritto che non può venir realizzato — come invece la maggior parte degli altri diritti fondamentali — davanti a una giurisdizione, ma è un diritto che deve venir realizzato tramite un dibattito, un dibattito democratico… ed è il fondamento di un dibattito democratico. E dunque fare un dibattito qui [a Ginevra] non è la cornice più appropriata, perché la cornice più appropriata un giorno saranno la Spagna e la Catalogna. Abbiamo due legittimità democratiche che probabilmente dovranno discutere, ma si tratta di un diritto fondamentale che sta a fondamento del dibattito democratico.
Nicolas Levrat: Sappiamo tutti che durante la prima metà del 20° secolo ci sono stati degli eccessi drammatici del nazionalismo che hanno portato a due conflitti europei e mondiali, ed è per questo che dopo il 1945 si ricostruisce l’Europa contro tali nazionalismi. Ma oggi vediamo emergere, da una decina d’anni, dei fenomeni interessanti, sia in Scozia, sia in Catalogna e in altri luoghi d’Europa, dove abbiamo dei popoli che si rivendicano tramite un progetto collettivo, in un progetto politico, in un progetto forse nazionale, ma nel quadro europeo. Dunque non è quel nazionalismo che ha portato a delle confrontazioni, che si oppone ad altri nazionalismi, [ma] è un nazionalismo aperto. E al contrario vediamo, effettivamente, esprimersi in molti paesi europei, a livello nazionale, un nazionalismo chiuso che vuole opporsi alla costruzione europea. Quindi è vero che oggi nel nostro mondo in cui l’ideologia liberale ha portato a privilegiare i diritti individuali, dobbiamo ritrovare dei mezzi per rifare il collettivo. E penso che dietro a certi di questi movimenti neonazionalisti, se così si può dire, ma nazionalisti aperti, c’è questa volontà di ricostruire dei collettivi.
Carles Puigdemont: Condivido pienamente l’idea che la maggioranza degli europei ha sulla parola «nazionalismo», perché è associata alla guerra, alla xenofobia, all’esclusione.
Darius Rochebin: Lei non è nazionalista?
Carles Puigdemont: In questo senso per nulla, non solo io stesso ma la maggioranza del popolo catalano… che è un popolo enormemente diverso, fondato a partire da differenti e successive onde migratorie, con una mescola di lingue, di culture, aperto al mondo… è — fortunatamente! — impossibile fondare un movimento basato sulle rivendicazioni etniche, ad esempio. Quindi è completamente escluso. Inoltre voglio dire una cosa [molto] chiara: se la Catalogna o una maggioranza dei catalani provasse a fondare uno stato indipendente per fare lo stesso che lo stato spagnolo ma con un nome diverso, io non sarei indipendentista. Ed è questo che unisce una gran parte della popolazione; che non condivide questa vecchia idea di nazionalismo che deve affermarsi per opposizione o nella negazione dell’altro. […] Amo usare l’espressione «sovranismo della cittadinanza», dei cittadini, per dar loro la parola e domandare di costruire insieme un paese che non sia fondato sull’idea vecchia e sacra di un’unità —decisa non sò da chi, dalle generazioni che ci hanno preceduto… — ma come progetto di adesione volontaria, per l’avvenire e per garantire alle future generazioni qualità di vita, pace e democrazia. […] Sono cosciente che questo può rappresentare una minaccia per gli stati nazione fondati sull’idea di una lingua, una cultura, un’identità e uno solo sguardo sul mondo. Ma questo — credo che questo sia condiviso da molta gente — è obsoleto, e dunque è normale che ci siano degli stati che comprendano questo [progetto] come una minaccia. Eppure, pur essendoci una forte resistenza, una revisione di questo modello vecchissimo, di questi stati centralizzati e con un potere statale enorme sulle nostre vite, è inevitabile. Il mondo globalizzato, tecnicizzato, che parla molte lingue, ormai non l’accetta più.
Micheline Calmy-Rey: Devo dire che da svizzera ho delle reticenze a parlare di stati nazione, perché la Svizzera non è uno stato nazione. La Svizzera non ha una lingua, una religione, una etnia… siamo composti da varie lingue, varie religioni, varie etnie e dunque siamo un modello di pluralismo con un sistema politico che permette di rispettare non le minoranze, perché non abbiamo minoranze in Svizzera, ma solo parti costitutive dello stato, il che garantisce che tutti veniamo trattati allo stesso modo, pur avendo ad esempio molti meno abitanti in Svizzera romanda [che in Svizzera tedesca], abbiamo la nostra televisione con [rivolta a Darius Rochebin] i nostri giornalisti di primo piano… e ho un vero problema con quest’idea di stato nazione centralizzato «uno, uno, uno»… una lingua, una religione, una cultura. Ciò che comprendo con movimenti come quello catalano, scozzese o còrso è che si tratta di una sorta di movimento identitario che si eleva con il bisogno di fare da controveleno alla globalizzazione. Ciò significa che è un mezzo per ritrovare dei riferimenti sul proprio territorio, di potersi sviluppare economicamente, culturalmente sul proprio territorio e di essere soprattutto rappresentati da delle istituzioni politiche nelle quali ci si ritrova e ci si riconosce. Ed è un sentimento di identità come questo che ricercano questi movimenti in Europa, e d’altronde ciò che è interessante vedere è che questi movimenti come quello catalano o scozzese sono pro-europei e che quindi non rinunciano a lavorare nella pluralità, con altri stati e ad aprirsi agli altri. Ma allo stesso tempo, in una sorta di movimento, di vai e vieni, cercano un’identificazione in relazione alle loro istituzioni politiche e alle persone che li rappresentano. È una cosa che trovo molto interessante e che vedremo continuare a svilupparsi.
Carles Puigdemont: C’è un idea che secondo me è pericolosa ed è quella della sacra unità. È una sorta di diritto divino che dà a un certo popolo l’autorità di diventare uno stato e lo rifiuta a degli altri. Chi esattamente dà il diritto a fondare uno stato? Una volta erano le guerre o dei popoli che si consideravano eletti eccetera… ma oggi gli stati devono essere fondati sulla volontà dei loro cittadini. E questo li rende mutevoli, li rende degli strumenti che possono venir cambiati da ogni generazione. Non c’è sacra unità, non c’è un’idea religiosa dell’unità della patria come spesso invece si dice agli indipendentisti catalani… che sarebbe una cosa che va aldilà perfino della democrazia e della costituzione. L’unità è una cosa della quale non si può nemmeno parlare, una sorta di tabù che può perfino portarti alla prigione se la metti in discussione. E questo è pericoloso, perché significa rinunciare a un’idea fondamentale in democrazia: le generazioni future devono avere il diritto di costruire il paese che preferiscono e non [mantenere] quello che conveniva ai nonni o ai bisnonni. Anche la repubblica catalana dev’essere mutevole e rivedibile, senza nulla di sacro in quest’idea. E dunque è un cambiamento nell’idea di sovranità, non fondata su un diritto divino o una legge inscrutabile ma sulla volontà dei cittadini che dev’essere sempre ascoltata e sentita.
Nicolas Levrat: Penso che precisamente la forza di quest’idea del diritto all’autodeterminazione, la forza della democrazia, è che si tratta della volontà dei cittadini — e delle cittadine per fortuna, ci è voluto molto tempo. Chi giustifica il potere? Ebbene, il potere non appartiene a un territorio, il potere non appartiene a un governo, il potere è legittimo in quanto risulta dalla volontà collettiva dei cittadini e ciascuno ha il diritto di partecipare o meno a un progetto politico. E in riferimento alla violenza: è evidentemente una cosa potenzialmente pericolosa, ma se guardiamo la situazione catalana bisogna sottolineare che c’è stata estremamente poca violenza. Da questo punto di vista è un processo notevole. Purtroppo la storia mostra che in generale è in seguito a delle crisi violente che si realizza il diritto all’autodeterminazione. E allora è forse una visione ideale pensare che con il dialogo e la deliberazione si potrà arrivare all’autodeterminazione. Ma in realtà se guardiamo la storia della Svizzera è un po’ questo: non ci sono state conquiste violente, i differenti cantoni hanno progressivamente deciso di partecipare a questo progetto politico. E infatti, come avete detto, la Svizzera non è una nazione che condivide la stessa religione, la stessa etnia, la stessa lingua. Non abbiamo nemmeno una vera lingua nostra — i romandi parlano la lingua di un popolo vicino, e gli italofoni parlano la lingua di un popolo vicino eccetera — ma abbiamo questa volontà di essere insieme… ed essere rispettati. E dunque questo è proprio il fondamento importante e trovo che questo nostro paese esprima non solo tale volontà ma inoltre ha da molto tempo deciso di non esercitare violenza nei confronti dei suoi vicini.
Darius Rochebin: Per Lei il caso svizzero è una fonte d’ispirazione?
Carles Puigdemont: Certamente. Quale sia il sistema che scegliamo, [lo scegliamo] per regolare le differenze, perché le differenze esistono e devono esistere in una società democratica, [ma] devono essere fondate sul rispetto. E quel che dimostra il caso [della fondazione del Canton Giura] è un enorme rispetto, un riconoscimento dell’altro, empatia politica. A partire da questo rispetto e da questo riconoscimento tutto è possibile. E sicuramente dal caso svizzero ci sono molte lezioni da prendere, il modo di gestire la complessità, la diversità linguistica e culturale, è ammirevole. Ciò mostra che non è per nulla impossibile e [anzi] è perfino efficace. Costa molto, suppongo, [e] richiede che ogni giorno — perché nulla è garantito — ci si lavori. Non dimentichiamo che alla fine sono i cittadini che devono decidere tutti gli accordi e i politici e le istituzioni devono rispettarli.
Micheline Calmy-Rey: Credo che la grande lezione della questione giurassiana o altri processi di indipendenza/autodeterminazione sia che sono dei processi che arrivano alla fine di un dialogo, di uno scambio, di un’espressione popolare. Anche se come nel caso giurassiano può durare anni, questo è il risultato. […] Il processo di autodeterminazione dei popoli non significa necessariamente secessione, ma può essere un processo di autonomia all’interno di un territorio, per esempio quello spagnolo, concordando un certo numero di spazi e di libertà o di rappresentatività a una comunità che si riconoscerebbe in questa forma di governo — e non può venire decretata così, ma necessità dei negoziati. Per esempio mi sembra che da parte della Catalogna uno degli elementi molto importanti sia l’indipendenza fiscale, [ovvero] la capacità di elevare delle imposte. Se tutto quel che potete fare sul vostro territorio viene dall’alto, siete diretti dalla volontà di un governo centrale e non avete la possibilità di incidere sulle risorse dove volete, non possiamo parlare di vera autonomia. E dunque c’è una discussione, un lavoro da fare a livello di Spagna e Catalogna, uno scambio e delle discussioni prima che la questione di una modifica costituzionale possa venire realmente posta.
Carles Puigdemont: Se l’unica maniera di diventare uno stato indipendente fosse la violenza, sarebbe una sconfitta collettiva, e i catalani si sono impegnati da vari anni su una via non violenta, [cioè] pacifica, di richiedere l’esercizio dell’autodeterminazione. […] L’opportunità dell’Europa è di mostrare che non è unicamente attraverso la violenza che possiamo diventare uno stato indipendente. […] Credo che ci sia un livello di violenza che non possiamo accettare nell’Europa del 21° secolo, perché c’è una violazione sistematica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, della Dichiarazione Universale dei diritti umani e del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite. Ed è assolutamente deplorevole che un giudice possa scrivere che mantiene in prigione provvisoria dei leader pacifisti, con biografie chiare di leader pacifisti, perché continuano a sostenere l’indipendenza. Bisogna mettere fine a questa cosa, perché non è la maniera di risolvere i problemi; non possiamo utilizzare il codice penale ma dobbiamo usare la politica.
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